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Minori e organizzazioni mafiose. L’educazione alla legalità come risorsa

autore: V. Cianciolo

Sommario: 1. Il Protocollo del TM di Reggio Calabria “Liberi di scegliere” per interventi a tutela dei minori di “ndrangheta”. - 2. Cosa prevede e a chi è indirizzato il progetto del Protocollo? - 3. Il fenomeno “minori di mafia”. - 4. Il diritto alla bigenitorialità e il programma di protezione dei collaboratori di giustizia. - 5. La famiglia italiana… è quella del Sud? - 6. Verso il futuro



1. Il Protocollo del TM di Reggio Calabria “Liberi di scegliere” per interventi a tutela dei minori di “ndrangheta”



Una costante della “cultura” mafiosa è la tendenziale sovrapposizione tra legami di sangue e affiliazione criminale. I rapporti di parentela, intesi in senso allargato e soprattutto distorto, finiscono per costituire la struttura di base delle organizzazioni mafiose. Le ’ndrine, in particolare, sono vere e proprie famiglie di sangue, nelle quali i minori vengono spesso allevati alla faida e alla vendetta e le madri hanno un ruolo determinante nel “trasmettere la cultura e le regole mafiose ai propri figli”1 . L’educazione che molti di questi ragazzi ricevono è nel segno del rifiuto generalizzato del diritto, del disprezzo verso la dimensione del pubblico potere e dei principi costituzionali. Fino a dove si spingono i poteri di intervento del Tribunale per i Minorenni – e, più in generale, delle istituzioni pubbliche – a tutela dei minorenni che crescono e vengono educati in contesti familiari intrisi dei (dis)valori propri delle organizzazioni mafiose? C’è un nuovo fronte nella lotta alla ’ndrangheta aperto dai magistrati di Reggio Calabria. Qui, infatti, il Tribunale per i Minorenni è l’unico in Italia ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi2 . È decisivo sottolineare che i decreti adottati dal TM reggino non vengono emessi sol perché alcuni componenti della famiglia risultano essere legati alla criminalità organizzata, ma nella misura in cui il metodo educativo malavitoso rechi in concreto un pregiudizio all’integrità psicofisica dei fanciulli. Si pensi a casi in cui si constati l’indottrinamento malavitoso del minore; al coinvolgimento del minore negli affari illeciti della famiglia; alla commissione da parte del minore di reati sintomatici di una progressione criminale; all’esigenza riscontrata in concreto di tutelare l’incolumità del minore nei contesti di faida.

Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria a settembre 2012 ha adottato per primo in Italia la linea dura per strappare ad un destino, comunque mortale, i minori delle famiglie di mafia. I giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del PM minorile Francesca Stilla, emisero “un provvedimento limitativo della potestà genitoriale” e nominarono per un 16enne un curatore speciale, visto “il conflitto di interessi tra lui e la madre incapace di indirizzarlo al rispetto delle regole civili e tutelarlo”. Lo stesso Tribunale ritenne “indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale”. Per i giudici minorili, infatti, “è l’unica soluzione per sottrarre” il 16enne “a un destino ineluttabile, e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore”. Il tribunale ha iniziato a prestare più attenzione ai bambini di note famiglie mafiose tra i 14 e i 15 anni e che avevano “iniziato ad acquisire la mentalità mafiosa”, come indica Di Bella, iniziando con piccoli crimini. Finora, questi ragazzi sono stati allontanati dai loro parenti e collocati in case di accoglienza. Ma non sono in prigione e possono saltuariamente tornare a casa per le visite. Soltanto come extrema ratio il bambino viene allontanato dalla sua Regione per essere inserito in case-famiglia o, da ultimo, in famiglie di volontari. L’obiettivo è quello di assicurare adeguate tutele, fornendo ai minori l’opportunità di sperimentare orizzonti sociali, culturali, psicologici e affettivi diversi, sottraendoli ad un mondo di violenza che ha la morte o il carcere come approdo finale. “Tutto ciò inizia sempre con un caso giudiziario”, spiega Di Bella, “quando questi ragazzi vengono accusati di bullismo o atti di vandalismo contro macchine anche delle forze dell’ordine, e la famiglia non fa nulla, allora interveniamo noi. Ogni volta che sono chiamato ad allontanare un minore dalla famiglia la decisione è difficile, devo emettere un doppio giudizio”. Ma, precisa, il Tribunale conclude che non vi sono altre soluzioni. “Il nostro obiettivo è dimostrare a questi giovani una realtà diversa da quella in cui sono cresciuti. Se sei un ragazzo il cui padre, zio o nonno è mafioso, allora non c’è nessun altro che può stabilire le regole ma noi gli forniamo un altro contesto”. Nel territorio calabrese il fenomeno dei cc.dd. minori di “ndrangheta” è grave e rilevante.

Ci si dimentica che anche questi sono minori, titolari del diritto ad una sana crescita psicofisica. Titolari del diritto all’educazione ed ai valori della democrazia, della legalità, nel rispetto dei diritti riconosciuti. Finora il TM di Reggio Calabria è riuscito a sottrarre una trentina di adolescenti alle cosche, affidandoli a famiglie o comunità del Nord. Un numero destinato a crescere. Si spera. I figli dei boss sottratti, per legge, alle famiglie in questo modo, non saranno più costretti a impugnare pistole o ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. Il 21 marzo 2013 tra tutti gli uffici giudiziari del distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria (Reggio, Palmi e Locri) è stato siglato un Protocollo con l’obiettivo di realizzare interventi giudiziari coordinati a tutela dei minorenni disagiati, autori o vittime di reati della provincia, devastata dalla capillare presenza di organizzazioni criminali a struttura familiare. Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e l’Autorità Garante hanno stilato un protocollo denominato “Liberi di scegliere” per la realizzazione di interventi di tutela dei minori di mafia. Il protocollo, allo stato, è pronto per la sottoscrizione. Il protocollo prevede l’accordo del Ministero dell’Interno, Ministero della Giustizia, il Presidente della Regione Calabria, il Tribunale per i minorenni di Reggio di Calabria, la Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio di Calabria, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio di Calabria, il Garante per l’Infanzia e Adolescenza. I soggetti sottoscrittori si impegnano a collaborare per il contrasto all’indottrinamento mafioso dei figli minorenni, in alcuni contesti di “ndrangheta”. Il fenomeno dei minori di “ndrangheta”, ovvero della trasmissione di valori culturali deteriori da padre in figlio, endemico, talvolta sommerso, per troppo tempo è stato sottovalutato.



2. Cosa prevede e a chi è indirizzato il progetto del Protocollo? Ma cosa prevede il protocollo?



Tecnicamente il documento prevede:

1. un circuito comunicativo che attivi procedure civili e penali a tutela dei minori, in parallelo o all’esito dei procedimenti per reati di criminalità organizzata;

2. un coordinamento tra gli uffici inquirenti e gli uffici giudiziari minorili, finalizzato all’adozione di tempestive misure a tutela dei minori di soggetti sottoposti a misure di protezione o che intraprendono percorsi di collaborazione con la giustizia;

3. un coordinamento tra gli uffici giudiziari nei procedimenti penali per reati commessi in concorso da maggiorenni e minorenni, con l’obiettivo di razionalizzare le risorse e evitare superflue duplicazioni di attività probatorie; 4. una cooperazione nei procedimenti penali e civili per reati sessuali e/o di maltrattamenti a danno dei minori, finalizzata a concentrare in un’unica soluzione l’audizione della vittima per evitarne ripetuti e traumatici esami. Il protocollo è prova della puntuale attuazione di una giustizia child friendly, attenta anche alla tutela psicologica del minore e protesa alla riduzione, o attenuazione, di ogni danno che il minore possa patire nelle ipotesi in cui sia coinvolto in un procedimento giudiziario. La diffusione delle notizie sul minore e il tenore con cui esse vengono riportate, non solo lede i suoi interessi, esponendolo al rischio di gravi e pericolose ritorsioni da parte della criminalità organizzata, ma offre un quadro dello stesso lesivo della sua immagine, descrivendolo come “educato alla mafia, abituato a maneggiare pistole sin da quando era piccolo, sa bene cos’è la droga e come si chiede il pizzo”, con ciò rischiando di ostacolare quell’azione di rieducazione e reinserimento che faticosamente le Autorità impegnate in questa complessa azione di recupero sociale tentano di realizzare. Si deve rammentare, infatti, che il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che da più tempo ha avviato la difficile battaglia della rieducazione dei figli delle famiglie di mafia, si pone come obiettivo quello di donare un futuro diverso a ragazzi altrimenti destinati alla violenza e alla sopraffazione, all’uccidere o all’essere uccisi3 . La specificità del progetto è caratterizzata dalla prosecuzione dell’intervento oltre il diciottesimo anno di età, con la predisposizione di un continuum operativo che includa l’accompagnamento del minore meritevole, ormai divenuto maggiorenne, sino al raggiungimento di un’autonomia esistenziale attraverso concrete alternative economiche di carattere formativo e professionale. Il progetto si propone di garantire ai ragazzi delle “ndrine”, adeguate tutele per una regolare crescita psico-fisica e, nel contempo, la chance di sperimentare alternative/orizzonti culturali, psicologici e sociali. Gli obiettivi specifici saranno: fornire contenimento e sicurezza alla sofferenza sperimentata dal minore; agganciare i bisogni e le esigenze tipiche dell’adolescenza, rimasti soffocati sotto il peso dei condizionamenti ambientali; promuovere valori opposti rispetto a quelli su cui si fonda la cultura mafiosa; valorizzare le potenzialità e risorse di cui il minore è portatore; sperimentare forme valide di vita fondate su percorsi di individuazione e scoperta del sé; elaborare in modo autonomo un progetto di vita sganciato da dinamiche criminali; offrire esperienze e opportunità formative/lavorative che rendano concreti i nuovi valori proposti; sostenere e accompagnare le famiglie in processi di emancipazione, con azioni di educazione alla genitorialità e di supporto alle scelte che le stesse famiglie vorranno. Il programma è indirizzato ai minori nei confronti dei quali il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria abbia emesso un provvedimento amministrativo e/o penale. Destinatari potranno essere anche i minori coinvolti in procedure di volontaria giurisdizione ex artt. 330 e 333 c.c., all’esito delle quali sia emesso un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale ovvero di limitazione della stessa, nei casi in cui si renda necessario allontanare i medesimi dalla famiglia d’origine e dai luoghi abitualmente frequentati dalla stessa.

Il progetto sperimentale4 prenderà in carico minori individuati dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, di concerto con le Procure (ordinaria e minorile) del distretto della Corte di Appello di Reggio Calabria tra: – figli di soggetti indagati/imputati o condannati per i reati di cui all’art. 51-bis e ter, c.p.p. per situazioni pregiudizievoli e condizionanti ricollegabili al degradato contesto familiare (intraneo o contiguo alla criminalità organizzata del territorio);

– minori sottoposti a procedimenti civili scaturiti ex art. 32 comma 4 d.P.R. 448 del 1988 o ai sensi dell’art. 609-decies c.p., nei casi di maltrattamento intra-familiare legato a dinamiche criminali;

– minori inseriti nel circuito penale (ammessi alla Map, condannati, inseriti in IPM, ammessi in misura alternativa alla detenzione provenienti da nuclei familiari intranei o contigui alla criminalità organizzata del territorio);

– minori allontanati a seguito di procedure ex artt. 330 e 333 c.c. dalle quali sia emerso il pregiudizio al sereno sviluppo psicofisico in ragione dell’indottrinamento mafioso operato ai loro danni dal nucleo parentale;

– minori sottoposti a provvedimenti meramente civili o amministrativi (ex art. 25 r.d.l. 1404/1934), sganciati da connesse vicende penali, per condotte irregolari sintomatiche dell’introiezione di una cultura malavitosa;

– minori appartenenti a nuclei sottoposti a misura speciale di protezione ex d.m. 138/2005, per i quali il Tribunale per i Minorenni – con il provvedimento assunto ex 330 e ss. c.c., artt. 10 e 11 d.m. 13 maggio 2005 n. 138 – demanderà agli organi preposti all’attuazione delle misure speciali di protezione e al Dipartimento Giustizia Minorile le necessaria attività di assistenza psicologica e inclusione scolastica.

– minori già condannati e ristretti presso l’IPM di Catanzaro. È doveroso ricordare, tra i tentativi di individuare una concreta tutela dei cc.dd. “figli di mafia” la proposta di legge, della XVII legislatura n. 1736 presentata il 28 ottobre 20135 , per l’introduzione, nel codice penale, dell’art. 416-quater6 istitutiva della pena accessoria, a seguito di condanna per associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p. (o per taluni delitti commessi avvalendosi delle condizioni ivi previste), della decadenza della responsabilità genitoriale. Si tratta di una misura che non è rispondente né ai valori della Carta Costituzionale né tantomeno a quella del minore. Si tratta di una misura inutilmente afflittiva nei confronti del minore e inconciliabile con il concetto di responsabilità genitoriale. Le pene accessorie non sono prese rebus sic stantibus, ma divengono res giudicata ed hanno carattere punitivo: posto che funzione della disciplina è il recupero della famiglia di origine per realizzare attraverso il rientro in famiglia il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia, non è possibile ammettere nell’interesse del minore che il mutare dei presupposti sulla base dei quali la pena accessoria è stata concessa possa consentire al minore di rivivere il rapporto con il proprio genitore e garantirgli il suo diritto, ad esempio, alla genitorialità, a crescere ed essere educato dalla propria famiglia (seppur con le limitazioni di un genitore sottoposto a pena detentiva). In secondo luogo, poiché la proposta, così come formulata, prescinde dall’esistenza di un pregiudizio per il minore, il discrimen per la titolarità della responsabilità genitoriale e quindi il diritto a realizzare la propria persona, anche, in una formazione sociale sarebbe il compimento di una determinata tipologia di reato. E last but not least, la norma non produrrebbe quasi effetto alcuno, pragmaticamente: per essere applicata deve essere res iudicata ed i minori in questione sarebbero già divenuti maggiorenni. Cui prodest?



3. Il fenomeno “minori di mafia”



La giurisprudenza del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria in materia di “minori di mafia”, di cui la sentenza in commento è espressione, costituisce un esempio importante ed innovativo di come il ricco strumentario a disposizione del giudice a protezione del superiore interesse del minore, possa essere utilizzato come formidabile strumento di contrasto nei confronti del fenomeno mafioso. Se la famiglia è il partner fondamentale per qualsiasi percorso di cambiamento e se, in sua assenza, i servizi sociali hanno strategie di intervento adeguate, non appare semplice il lavoro di trasformazione e di intervento in presenza di una famiglia che rinforza i disvalori della cultura criminale e associativa nella quale il minore è cresciuto ed è ben inserito. Il fenomeno della devianza minorile nel meridione d’Italia trova le sue radici nel processo di disgregazione del tessuto sociale fatto di povertà, emarginazione, bassi livelli formativi con tassi d’evasione scolastica altissimi, mancanza d’occasione di lavoro legale. Le statistiche degli ultimi anni indicano un netto aumento nelle regioni del Sud del coinvolgimento di minorenni nella criminalità organizzata. Anche se resta sempre difficile provare l’associazione per delinquere di stampo mafioso o camorristico, si può con sicurezza affermare che molte centinaia di minori svolgono, stabilmente, un ben preciso ruolo esecutivo nell’ambito delle organizzazioni criminali. Siamo sicuramente in presenza, rispetto ai primi anni novanta, di una specializzazione e di un perfezionamento dei compiti svolti da questi ragazzi. Gli esperti del settore raggruppano i minori radicati nell’area della criminalità organizzata in tre gruppi:

– il primo gruppo è costituito da figli di appartenenti alle organizzazioni criminali più o meno autorevoli, che quindi fanno parte per vincolo di sangue della famiglia malavitosa;

– il secondo gruppo è costituito da quei ragazzi che, pur non facendo parte della famiglia e non portandone quindi il cognome, sono tuttavia inseriti nel clan familiare col quale si identificano, condividendone gli obiettivi. Essi sono, quindi, legati alla famiglia per vincolo di appartenenza;

– rientrano, infine, nel terzo gruppo quei ragazzi che, pur non appartenendo al clan, operano nell’area dell’illegalità, nel pieno rispetto delle regole che in quel quartiere la famiglia malavitosa ha stabilito a salvaguardia dei propri traffici: non toccano certe persone, non commettono certi reati, non invadono certe zone. I ragazzi del primo gruppo, quasi mai arrivano nell’istituto penale in espiazione di pena, cioè per effetto di una sentenza definitiva, perché la famiglia è molto attenta a tenerli lontani da grossi rischi nel corso della minore età. È solo nelle faide familiari che, negli ultimi tempi, si vedono ormai coinvolti anche i giovanissimi. Marilina Intrieri, garante per l’Infanzia e l’adolescenza della Calabria si è occupata di questa spinosa problematica già alcuni anni fa, quando era deputata, in qualità di membro della commissione Giustizia e della commissione bicamerale per a e racconta: “quando fu emanato il primo provvedimento si aprì un dibattito in Calabria sulla stampa, che rischiò di confondere la pubblica opinione. Intervennero in modo inopportuno anche rappresentanti del clero, sul fatto che quei minori venivano strappati alle loro famiglie, quindi, veniva violato il loro diritto alla famiglia sancito dalla convenzione di New York. Come garante – puntualizza Intrieri – intervenni immediatamente e in solitudine ricordando che la convenzione di New York riconosceva al minore, tra i diritti fondamentali, quello alla educazione e che il magistrato, nel decidere l’allontanamento del minore dalla famiglia di mafia, aveva giustamente valutato prevalente quello all’educazione su quello agli affetti”. Dei provvedimenti assunti sui minori di mafia, continua Intrieri, “si stanno interessando anche gli organi di informazione di diversi Paesi europei. La Calabria, quindi, ha bisogno innanzitutto del contributo e della generosità del suo Paese per cercare di affrontare al meglio questa problematica”.



4. Il diritto alla bigenitorialità e il programma di protezione dei collaboratori di giustizia



Un triste caso trattato dall’ufficio del Garante ha riguardato la figlia minorenne di un soggetto appartenente, in passato, alla criminalità organizzata, oggi collaboratore di giustizia, sottoposta con entrambi i genitori al programma di protezione. La madre, con la minore al seguito, ha, successivamente, abbandonato il programma di protezione per incomprensioni con il marito, ma in accordo con lui. In seguito il marito, durante un incontro, le avrebbe sottratto la figlioletta. Fatto denunciato dalla madre alle Autorità competenti. La bambina ora vive in un luogo segreto col padre. Il Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, bilanciando gli interessi di sicurezza della bambina con il suo diritto agli incontri in relazione alla figura materna, ha disposto che madre e figlia, si incontrassero, almeno, un fine settimana al mese, con pernottamento e una video chiamata al giorno, il tutto con modalità consone ad un regime di protezione. Gli incontri sono avvenuti, presso un polo fittizio, e pianificati dai servizi sociali, nell’ambito della programmazione di un percorso di incontri. La madre ha esposto che le verrebbe impedito, da molto tempo, il suo diritto, e prima di tutto il corrispettivo diritto della figlia, agli incontri seppur tra le due esista un forte legame e la sua presenza non sarebbe da ostacolo alla buona crescita della figlia. Presso il Tribunale per i minorenni non risultano provvedimenti ulteriormente restrittivi della responsabilità genitoriale e/o modificativi, o ostativi degli incontri7 . Inoltre, da oltre un anno ha fatto richiesta di rientro nel programma di protezione, al fine di garantire la sua presenza alla figlia, senza ottenere risposta alcuna.



5. La famiglia italiana… è quella del Sud?



È opinione diffusa tra i giornalisti e gli studiosi stranieri che la famiglia italiana (e in maniera estremizzata quella del Mezzogiorno) sia caratterizzata da una straordinaria compattezza a causa del grande potere e della posizione di centralità che detiene nella società italiana8 . Peter Nichols, per molti anni corrispondente da Roma del Times, nel 1973 descrisse la famiglia italiana come: “il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il remuneratore”9 . Sempre in termini estremi, A.J. Ianni, antropologo e studioso britannico, ha sostenuto che se in Italia la famiglia è la principale artefice della struttura sociale, nel sud del paese “essa è la struttura sociale. La dicotomia fra nord e sud del paese, da un lato una mentalità europea, capitalistica, dall’altro una mentalità legata più al potere e alla gente che al profitto e alla ricchezza, si rispecchierebbe nel rapporto fra famiglia, imprese e governo: nel sud la famiglia non entra negli affari o nella politica, ma incorpora i medesimi quali sottosistemi di un sistema di parentela che allunga i suoi tentacoli ovunque”10. E ancora nel maggio del 1990 sull’Economist uscì un’inchiesta sull’Italia dove alla famiglia viene attribuito un valore esplicativo universale come, “nucleo duraturo della società italiana. Essa spiega la mancanza di spirito pubblico, se non del concetto stesso di bene pubblico […] Spiega la mafia, la famiglia più grande di ogni altra. Dagli Agnelli in giù, gli italiani amano mantenere il controllo dei propri affari all’interno della famiglia”11. Secondo l’antropologo John Davis, nell’Italia meridionale, lo spazio lasciato da uno Stato debole, assente e non rispettato, è stato riempito dall’istituzione familiare quale unica detentrice del potere, unica fonte di legittimità e consenso: “una famiglia forte, una struttura politica debole resa ancora più debole dal predominio della religione, e un primitivo senso dell’onore che ha la precedenza sulla legge, sono i principi fondamentali che informano la cultura del Mezzogiorno e ne costituiscono l’ossatura”. In un contesto in cui lo Stato centrale “non era riuscito a imporre la propria autorità e assicurarsi il consenso dei cittadini”, la mafia venne ad occupare lo spazio “che le istituzioni non erano state in grado di difendere” perché questa “offriva protezione laddove lo Stato era latitante”. L’organizzazione di stampo mafioso trae alimento dalla forza della struttura parentale, ma si colloca in una posizione di supremazia rispetto a tutte le parti costituenti la società: “per la mafia non poteva esistere equilibrio fra le tre principali componenti dell’aggregazione umana, [famiglia, società civile e Stato] quanto piuttosto la supremazia all’interno della società di un’unica organizzazione”12. Racconta Falcone che all’iniziazione dell’allora giovane Antonino Calderone, furono riferite le parole: “col sangue si entra e col sangue si esce da Cosa Nostra! […] Lo vedrete da voi, tra poco, com’è che si entra col sangue. E se uscite, uscite col sangue perché vi ammazzano”. Ma il sangue versato dal novizio, sancisce un legame non al pari livello, bensì, al di sopra di ogni legame familiare: “non potete tradire Cosa Nostra, perché è al di sopra di tutto. Viene prima di vostro padre e di vostra madre. E di vostra moglie e dei vostri figli”. Sempre Falcone, racconta di un caso emblematico di legami familiari sacrificati alle regole dell’organizzazione, descritto da Vincenzo, detto Enzo, un ragazzo nato nel 1956 in un paese della provincia di Trapani, ultimo di otto fratelli, ed entrato presto nella società degli uomini d’onore. La testimonianza di Enzo è il frutto della sua scelta di collaborare con la giustizia, avvenuta in seguito al suo arresto, il 5 novembre del 1991, e al suo successivo incontro col magistrato Paolo Borsellino, il 3 dicembre dello stesso anno. Enzo racconta un episodio accaduto all’interno della sua cosca mafiosa; il caso è quello di Lorenzo, uomo d’onore e padre di Lillo, un giovane affiliato a Cosa Nostra grazie al padre che gli aveva insegnato, “la cultura degli uomini d’onore, l’astuzia, il coraggio, il rispetto, come e quando usare la forza”. Ma Lillo era colpevole di aver tradito la famiglia toccandola nei suoi interessi, così: “fu ammazzato mentre camminava per strada, vicino alla stazione di Palermo. Non si accorse di niente e non soffrì, non vide la morte che si avvicinava. Un uomo lo accostò, gli puntò la pistola alla testa e sparò. Una fine bella per un uomo d’onore. Il riguardo era dovuto a suo padre, soprattutto”. Siamo di fronte al paradosso, tutto mafioso, per cui anche un omicidio può contenere messaggi di stima e rispetto. Il padre chiese conto di quella morte ma, comprendendone i motivi, non avanzò mai propositi di vendetta: “Cosa Nostra viene prima dei legami di sangue – spiega Vincenzo –, il sentimento non deve mai prevalere sulla ragione […] Con la nostra cultura pensavamo così: se uno fa un giuramento e accetta certe regole, le deve rispettare. Se mi dicevano che mio fratello era un infame, io lo uccidevo. Ci sono stati padri che hanno ammazzato figli, e l’incarico gli veniva affidato proprio per metterli alla prova. Alcuni, saputo il tradimento, hanno chiesto di sparare di persona, dimostrando che la famiglia veniva prima del loro sangue. Forse pensavano che era meglio se uccidevano i figli con le loro mani, senza causare sofferenze inutili. Ci sono stati uomini d’onore, invece, che hanno messo i parenti davanti alle regole di Cosa Nostra, e sono stati uccisi”13.



6. Verso il futuro



La manipolazione delle relazioni parentali e dei suoi affetti a favore dell’istituzione mafiosa giunge quindi fino al punto di sacrificare la vita stessa dei familiari, anzi, risulta particolarmente utile, sfruttare la fiducia data dal legame sanguigno per l’avvicinamento di una vittima. Nelle famiglie mafiose, quelle “ndranghetiste” specificatamente, la trasmissione dei codici d’onore, avviene prestissimo. Perché quella stessa organizzazione criminale è fondata, culturalmente e socialmente, sul modello della famiglia. Aspetto che, per anni, a differenza di cosa è successo con la mafia siciliana e la camorra napoletana, ha prodotto un numero irrisorio di collaboratori di giustizia. E chi, per esempio, come la testimone di giustizia Lea Garofalo ha, addirittura, avuto il coraggio di sfidare, per amore di sua figlia Denise, il suo stesso nucleo familiare, ha pagato con la vita la sua scelta. Eppure oggi, proprio da una regione con tanti problemi come la Calabria e nella quale, forse più che altrove, è ancora vigente l’idea che le donne debbano sottostare e ubbidire come animali a uomini il cui unico vocabolario è quello della violenza e della prepotenza, germogliano semi di speranza. E a seminarli sono proprio le donne. Per amore dei figli. Da qualche anno, con il loro aiuto e per la prima volta in Italia, il Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria riesce a sottrarre i minorenni ai genitori mafiosi. “L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale”, dice Roberto Di Bella, Presidente di quel Tribunale. Ciò che si vuole evitare è quindi l’abuso dei diritti dei genitori nei confronti dei propri figli: in altri termini, si tenta di impedire un uso distorto della responsabilità genitoriale. Non si deve trascurare poi che l’art. 30, I comma, della Costituzione deve essere letto unitamente all’art. 54, I comma, che pone per tutti i cittadini, quindi anche per i genitori, il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. Ancora una volta, l’intervento pubblico si giustifica alla luce del principio di sussidiarietà: lo Stato interviene in quanto i genitori si sono dimostrati incapaci di svolgere il loro compito, essenziale per la crescita del minore. I decreti del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria hanno consentito a diversi minori di riprendere a frequentare la scuola e di seguire percorsi di legalità, e anche alcune madri hanno finito col prendere atto che solo allontanando il minore dal contesto di provenienza è possibile sperare ragionevolmente che questi abbia un futuro lontano dalla criminalità organizzata. In situazioni come queste l’allontanamento dalla famiglia d’origine è l’unica penosa e dolorosa strada da percorrere per “sottrarre un minore ad un destino altrimenti ineluttabile e, nel contempo, per consentire al medesimo contesti di vita alternativi a quello non tutelante di provenienza”14. L’obiettivo deve essere quello di rompere i muri dell’omertà e della complicità. Per aprire nuove strade per l’avvenire a generazioni in grado di scegliere autonomamente quale futuro vivere, nella possibilità di coltivare i propri talenti e realizzare i propri sogni.

NOTE

1 N. GRatteRi, A. niCaso, Il grande inganno, Cosenza, 2012, 55.

2 Trib. min. Bari, decreto 17 gennaio 2007, p. 2, in Fam. e minori, 2007, n.

8, 16, con nota di V. montaRuli, Ravvisabile un pregiudizio nell’abituare a codici fondati su omertà

e violenza; Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 7 febbraio 2012; Trib. min. Reggio Calabria,

decreto del 19 luglio 2012; Trib. min. Reggio Calabria, decreto 7 settembre 2012; Trib. min. Reggio

Calabria, decreto del 22 gennaio 2013; Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 19 giugno 2013;

Trib. min. Reggio Calabria, decreto 23 settembre 2014; Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 3

marzo 2015; Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 31 marzo 2015; Trib. min. Reggio Calabria,

decreto del 14 luglio 2015; Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 29 settembre 2015.

3 Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha voluto censurare il paradigma educativo

mafioso nei casi in cui arrechi pregiudizio all’incolumità fisica o psichica dei minori. La logica è la

stessa degli interventi nei confronti dei genitori che maltrattano i figli o hanno gravi problemi di

dipendenza dall’alcol o da sostanze stupefacenti. Si sono avuti così provvedimenti di decadenza o

limitazione della responsabilità genitoriale e, in alcuni casi, di contestuale allontanamento dei

minori dal nucleo familiare mafioso.

4 Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza Regione Calabria On. Marilina Intrieri, Relazione

Annuale 31.03.2015-31.03.2016.

5 Introduzione dell’articolo 416-quater del codice penale, concernente la pena accessoria della

decadenza dalla potestà dei genitori a seguito di condanna per associazione di tipo mafioso, di cui

all’articolo 416-bis del medesimo codice, o per taluni delitti commessi avvalendosi delle condizioni

ivi previste

6 “Art. 416-quater. – (Decadenza dalla potestà genitoriale). – La condanna per il delitto previsto

dall’articolo 416-bis comporta la decadenza dalla potestà genitoriale. La pena accessoria prevista

dal primo comma del presente articolo si applica nel caso di condanna per i delitti previsti dagli

articoli 416, 422, 575, 600, 601 e 602 del presente codice, dagli articoli 1, 2, 2-bis, 4 e 6 della legge

2 ottobre 1967, n. 895, e successive modificazioni, dall’articolo 23 della legge 18 aprile 1975, n.

110, e successive modificazioni, e dagli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del

Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, se commessi

avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del presente codice ovvero i al fine di

agevolare l’attività delle associazioni di cui al medesimo articolo”.

7 L’ordinamento garantisce anche il diritto dei figli minori d’età alla continuità del legame affettivo

col genitore detenuto (e il diritto/dovere di quest’ultimo di esercitare il proprio ruolo genitoriale):

sul punto v. G. sPanGheR, Art. 28 (Rapporti con la famiglia), in AA.VV., Ordinamento penitenziario

commentato, I, Trattamento penitenziario (Articoli 1-58 quater), a cura di V. GReVi, G. GiostRa, F.

Della Casa, Padova, 2011, 325 ss.

8 Per approfondimenti sulla famiglia italiana contemporanea vedi P. GinsboRG, L’Italia del tempo

presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino, 1998, 132-160.

9 P. niChols, Italia, Italia, London, 1973, p. 227; trad. it. Italia, Italia, Garzanti, Milano, 1975, 222.

10 F.A.J. ianni, Affari di famiglia: parentela e controllo sociale nel delitto organizzato, trad. it. di D.

Ceni, Garzanti, Milano, 1974, 36.

11 Survey of Italy, in The Economist, CCCXV (1990), n. 7656, 14.

12 P. GinsboRG, L’Italia del tempo presente, cit., 365-368.

13 G. FalCone, M. PaDoVani, Cose di Cosa Nostra, Bompiani, Milano, 1991.

14 Trib. min. Reggio Calabria, decreto del 14 dicembre 2012.