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La surrogazione di maternità

autore: A. Renda

È noto che la Corte costituzionale, con sentenza 10 giugno 2014, n. 162, ha dichiarato l’illegittimità di una serie di norme (gli artt. 4, 3° comma; 9, 1° e 3° comma; 12, 1° comma) della l. 19 febbraio 2004, n. 40, che vietavano la procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, cioè quella nella quale l’embrione è fecondato in parte con gameti di un soggetto estraneo alla coppia di aspiranti genitori. Dopo questa sentenza, quindi, nel nostro ordinamento la fecondazione eterologa è ammessa, sia in vivo che in vitro, sia nella variante della donazione di spermatozoi, sia nella variante della donazione di ovociti. Ciò allinea sicuramente il nostro ordinamento alla stragrande maggioranza di quelli europei, nei quali questa tecnica è ammessa, se si fa eccezione di Austria, Germania e Norvegia, che la vietano nella variante della donazione di ovociti e che, vietando anche la surrogazione di maternità, perseguono coerentemente lo scopo di evitare ogni forma di maternità divisa. Certo è che questo – per così dire – allineamento al mainstream europeo non è senza prezzo. Con questa innovazione, infatti, oggi in Italia può esserci filiazione senza procreazione non solo a posteriori, cioè per fatti sopravvenuti alla nascita, come nel caso dell’adozione (che presuppone l’abbandono del figlio o la morte dei genitori biologici), ma pure a priori. A nessuno sfugge che ciò produce un mutamento antropologico nell’idea di filiazione. La filiazione si disincarna, cioè si astrae dalla base biologica, per diventare l’effetto legale di una scelta, che il diritto asseconda attraverso l’ausilio delle biotecnologie. Per certi versi, è come se la filiazione diventasse servente rispetto alla genitorialità. Prima era il contrario: si era genitori in funzione del figlio messo al mondo. Ora si diventa figli per consentire ad altri di essere genitori. Non è la stessa cosa. In ciò si annida il rischio della restaurazione di quello che in un lontano passato è stato il diritto alla stirpe ed alla discendenza. Ciò che in questa sede mi interessa sottolineare, però, è un altro aspetto, e cioè che il permesso della donazione di ovociti coesiste con il divieto della surrogazione della maternità. Questo divieto abbraccia tanto la “maternità surrogata” in senso stretto (in cui la donna committente è doppiamente estranea al nascituro, e ricorre ad una gestatrice che è sia madre genetica, perché dà gli ovociti, sia madre biologica, che porta a termine la gravidanza), quanto la “maternità portante” o gestazione per altri (nella quale la donna committente fornisce gli ovociti e quindi è madre in senso genetico, e ricorre ad un’altra donna – cd. madre biologica - affinché resti incinta e porti a termine la gravidanza). Si tratta di un divieto penalmente sanzionato (art. 12, 6° comma, l. 19 febbraio 2004, n. 40), che essendo comminato da una norma imperativa rende nullo di pieno diritto l’accordo di surrogazione. Peraltro, que sto divieto, ribadito dalla stessa Corte costituzionale che ha legittimato l’eterologa (§ 9 della motivazione), è largamente maggioritario in Europa, visto che sono pochi gli stati europei che ammettono la surrogazione di maternità (tra questi Olanda, Regno Unito e Grecia, oltre che alcuni paesi dell’est). Questo idem sentire europeo risulta, oltre che dal diritto legislativo, anche dalle prese di posizione espressive della politica del diritto, se si pensa che la Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014, approvata il 17 dicembre del 2015 dal Parlamento europeo, contiene una dura condanna della surrogazione (§ 115). Questa stessa condanna è stata recentemente ribadita dal voto con il quale l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha respinto l’11 ottobre 2016 un rapporto che, prevedendo l’elaborazione da parte del Comitato dei ministri di Linee guida in difesa dei diritti dei bambini nati dalla maternità surrogata, è stato visto dai più come un escamotage per legittimare questa pratica. Decisivo è stato, ai fini del no, il convergere tra cattolici e laici e soprattutto, all’interno dei secondi, la netta presa di posizione contraria di molti movimenti femministi. Non è difficile comprendere, quindi, come la nostra Cassazione civile possa qualificare il divieto come di ordine pubblico internazionale, con la conseguenza che non è ammessa la trascrizione dell’atto di nascita formato in uno stato straniero che consenta la surrogazione di maternità ed indicante come madre la donna committente, dal momento che l’art. 18 ord. st. civ. (d.p.r. n. 396/2000) vieta la trascrizione nei registri dello stato civile di atti stranieri quando siano contrari all’ordine pubblico (Cass., 11 novembre 2014, n. 24001). Ora, dicevamo che il divieto di maternità surrogata coesiste con il permesso della donazione di ovociti. Combinando l’uno e l’altro, l’ordinamento italiano ha superato il presupposto della necessità dell’apporto genetico ai fini dell’attribuzione legale della maternità, mentre tiene fermo il presupposto della gravidanza e del parto. Insomma, per essere giuridicamente madre si può anche non avere dato i propri gameti, ma bisogna avere partorito. Gravidanza e parto sembrano quindi ad oggi elementi identificativi irrinunciabili della maternità. Se così è, bisogna domandarsi perché. Si potrebbe rispondere che i nove mesi di gravidanza creano un legame simbiotico tra l’embrione/feto e la donna, che prefigura quell’accoglienza che proseguirà nell’autonomia delle persone alla nascita del bambino. Ma forse è una risposta da un lato retorica e dall’altro assiomatica, perché dà per scontato che l’apporto della gravidanza sia più importante di quello genetico, il che è tutto da dimostrare. Da un punto di vista strettamente causale, il contributo genetico e quello biologico sono co-determinanti nella nascita della persona: senza gli ovociti non si formerebbe l’embrione, che è il principio della persona; senza la gestazione il processo di sviluppo che mette capo alla nascita non arriverebbe a compimento. Dal diverso punto di vista del contributo all’imprinting della persona conferito da genetica e gestazione, appare maggiore quello della genetica, nella misura in cui i geni conformano la persona. Il nato ha il DNA soltanto della donna che ha conferito i propri ovociti, e quindi di quella donna ha le caratteristiche, somatiche e di indole, che dipendono o sono influenzate dal DNA: per intenderci, se nell’utero di una donna bianca viene impiantato l’embrione fecondato con i gameti di due persone di colore nascerà un bambino di colore, e non un mulatto. La gravidanza, invece, dà un contributo che, allo stato delle attuali cognizioni scientifiche, si limita alla trasmissione del sistema immunitario, per cui il nato è esposto al rischio di malformazioni e malattie connesse con la gravidanza. Si tratta peraltro di un contributo reciproco, perché recentissimi studi sul cd. microchimerismo maternofetale dimostrano che durante la gravidanza non solo cellule della gestante passano nel corpo del nascituro superando la barriera placentare, ma anche cellule del feto passano nel corpo della donna, rimanendovi dopo la nascita e potendo prendere parte a processi sia fisiologici che patologici. A pensare meglio la cosa, emerge che la surrogazione di maternità è vietata un po’ dappertutto, mentre la donazione di ovociti è ammessa un po’ dappertutto, non perché la gravidanza sia più importante dei geni nella formazione di una persona, ma perché la surrogazione di maternità viola tutta una serie principi, con i quali la donazione di ovociti non contrasta. Anzitutto, la surrogazione di maternità si fonda su di un atto di disposizione che, a differenza della donazione di ovociti, ha ad oggetto non una parte staccabile del corpo umano (come sono i gameti), bensì il corpo stesso della donna. Anzi, fondandosi su di un accordo che precede la gravidanza, la surrogazione non si manifesta come mero atto di disposizione del proprio corpo, che si esaurisce in un punctum temporis, ma fa sorgere l’obbligazione di disporre del proprio corpo, cioè di restare incinta per poi cedere il neonato a terzi. Ebbene, una tale obbligazione strumentalizza il corpo femminile, perché degrada la donna ad esclusivo mezzo di soddisfacimento dei fini altrui. L’imperativo categorico kantiano non vieta di trattare l’altro come un mezzo, vieta di trattarlo esclusivamente come un mezzo, perché l’uomo è un fine in sé. La gestante asservisce tutta se stessa allo scopo procreativo altrui, rispetto al quale ella si fa mero mezzo, e per ben nove mesi. Il problema non è quindi quello dell’onerosità. Quand’anche sia gratuita, la surrogazione fa della donna un mezzo per realizzare il progetto di genitorialità di altri. Se poi è onerosa, a ciò si unisce la commercializzazione del corpo umano, che è vietata dall’art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina e dall’art. 3, comma 2, lett. c) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Alla base del voto contrario del Consiglio d’Europa dello scorso 11 ottobre si pone proprio la contestazione, a mio avviso condivisibile, che possa realmente distinguersi tra surrogazione onerosa e surrogazione gratuita. Ciò nel duplice senso che molto spesso una surrogazione apparentemente gratuita dissimula una surrogazione onerosa attraverso la previsione di un lauto rimborso spese e che, soprattutto, la distinzione non è eticamente dirimente perché anche la variante gratuita è contraria alla dignità umana.

In secondo luogo, se la surrogazione venisse ammessa, bisognerebbe coerentemente garantire per legge la coercibilità dell’obbligo di “consegnare” il neonato dopo il parto alla donna committente, come se fosse una res, strappandolo così a colei che l’ha partorito e che frattanto potrebbe aver cambiato idea e desiderare di tenerlo come proprio figlio. Questa coercibilità appare però talmente ripugnante, da suggerire a ritroso di non ammettere la surrogazione stessa. Inoltre, se la surrogazione venisse ammessa bisognerebbe pure coerentemente estendere a questa pratica la disciplina dei vizi propria dei contratti d’opera, a tutela del diritto dei committenti all’esatto adempimento. Questa è, del resto, l’aspettativa di chi vi ricorre. Lo dimostra il caso, reso noto dai media nell’agosto 2014, in cui i committenti, australiani, hanno rifiutato di “ricevere in consegna” uno dei due gemelli partoriti dalla donna thailandese alla quale si erano rivolti (a titolo oneroso, e con ovociti proveniente da una terza donna), perché affetto dalla sindrome di Down. Nel complesso, quindi, si tratta di una pratica che tende a reificare i soggetti coinvolti, ed in specie la donna che partorisce ed il neonato, degradato a prodotto che si accetta purché non sia “difettoso”. In conclusione, non è vero che il parto è più importante dei gameti. È che la surrogazione di maternità, rispetto alla donazione di ovociti, contrasta con una serie di principi caratterizzanti il sistema ed è quindi socialmente più allarmante, così da meritare di essere vietata e penalmente sanzionata. È chiaro però che, nonostante la sanzione penale, può darsi che si faccia ricorso comunque a questa pratica. Il problema che si pone, per il diritto civile, è a chi attribuire la qualità di madre. Se si ricorre alla maternità surrogata in senso stretto, nulla quaestio: madre è colei che ha in pari tempo fornito gli ovociti e partorito. Ma se si ricorre alla maternità portante, il problema è più complesso. In astratto, la questione sarebbe indecidibile, perché sia la derivazione genetica che il parto sono titoli attributivi della maternità. Bisogna allora adottare una soluzione che sia coerente con la disapprovazione di questa pratica. L’attribuzione dello status, cioè, deve essere la più adatta a dissuadere dal farvi ricorso. Pertanto, la soluzione maggiormente deterrente non può che essere quella che assegni la maternità proprio alla donna che ha partorito, non perché questa è “più madre” dell’altra donna, ma perché così si frustra la pretesa ad essere madre della donna committente e quindi si disincentiva il ricorso a questo fenomeno. Occorre chiedersi, però, se questa soluzione debba valere anche quando la surrogazione di maternità emerga a distanza di tempo dalla nascita. In altri termini, se il bambino vive con la coppia di committenti, la verità biologica deve comunque prevalere, oppure bisogna prediligere una soluzione diversa? Distinguerei tra il piano de iure condito e quello de iure condendo. De iure condito, se si è formato l’atto di nascita di figlio dei committenti si rende proponibile l’azione di contestazione dello stato (art. 248, 2° comma, c.c.), che reagisce al mancato parto ad opera della donna indicata come madre nell’atto di nascita ed è proponibile senza limiti di tempo anche quando all’atto di nascita corrisponda il possesso di stato (arg. ex art. 238 c.c.). Ciò significa che la verità prevale sulla stabilità del rapporto affettivo consolidatosi nel tempo ma biologicamente fittizio. Se invece manca l’atto di nascita di figlio rispetto ai committenti, questi non possono diventarne legalmente genitori per il fatto di vivere con il minore, perché il possesso di stato di figlio (artt. 236, 2° comma e 237 c.c.) presuppone che chi si comporta come genitore tale sia biologicamente. In altri termini, un bambino non può acquistare per usucapione lo stato di figlio di coloro che se ne prendono cura, o se si preferisce non è possibile adottare il figlio altrui per effetto del suo accudimento, per quanto protratto nel tempo. Pertanto, se il nato da surrogazione può ottenere in tempi ragionevoli (arg. ex art. 11, 2° e 3° comma, l. adoz.) l’accertamento della filiazione biologica nei confronti di anche solo uno dei genitori, qualsiasi altra soluzione è recessiva. Se, invece, il bambino non può ottenere tale accertamento in tempi ragionevoli, si apre un procedimento che l’avvia all’adozione, permettendogli di inserirsi in una famiglia che dia adeguate garanzie di idoneità anche affettiva. De iure condendo, invece, credo sia opportuno adottare una soluzione diversa, che trovi il giusto punto di equilibrio tra l’esigenza di essere coerenti con il divieto di surrogazione di maternità e quella di non deludere gli affidamenti creatisi nel tempo, purché però si abbia chiaro che l’affidamento meritevole di tutela è soltanto quello del minore e non anche quello dei “committenti” ad essere genitori. Qualunque soluzione si ipotizzi deve rimanere fedele all’art. 30 Cost., che al suo secondo comma imposta il rapporto tra genitorialità biologica e genitorialità sociale alla stregua dell’eccezionalità della seconda rispetto alla prima. Ritengo opportuno distinguere a seconda che la filiazione biologica sia accertabile o meno. Nella prima ipotesi, che si configura soprattutto allorché il ricorso alla surrogazione di maternità sia avvenuto in un ordinamento, come l’Italia, che riconosce la maternità della donna che ha partorito, ciò dovrebbe bastare ad escludere la possibilità di instaurare un rapporto giuridicamente rilevante con i “committenti”. Diversamente nella seconda ipotesi, che si configura allorché il ricorso alla surrogazione di maternità sia avvenuto in un ordinamento che, ammettendola, per ciò stesso non riconosce la maternità della donna che ha partorito. In questo caso, per il bambino l’alternativa corre tra due tipi diversi di genitorialità sociale, cioè da un lato l’adozione ordinaria da parte di estranei e dall’altro un istituto che formalizzi il rapporto di fatto con i “committenti”, magari un nuovo caso di adozione in casi particolari. Ebbene, l’adozione da parte dei” committenti” dovrebbe essere preferita all’adozione da parte di estranei tutte le volte che il rapporto con i primi si sia consolidato in una consuetudine di vita la cui interruzione comporti per il bambino un pregiudizio, dal punto di vista affettivo e psicologico, maggiore del beneficio che potrebbe conseguire attraverso l’adozione da parte di terzi. Da questo punto di vista, non si può condividere del tutto una recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 27 gennaio 2015 (Paradiso e Campanelli c. Italia), la quale correttamente ha affermato la necessità di non spezzare in modo arbitrario, attraverso la pronuncia di adottabilità del nato da surrogazione all’estero, una relazione familiare di fatto, ma poi ha ritenuto tale la relazione durata per soli sei mesi, a partire dal terzo mese di vita del bambino, che in così tenera età non può avere elaborato un’identità fondata su di una chiara cognizione di sé e degli altri. Insomma, deve essere chiaro che l’interesse del minore non consiste nel salvare l’esistente in quanto tale. Se così fosse, tanto varrebbe abrogare il divieto di surrogazione di maternità, senza l’ipocrisia di lasciarlo intatto, per poi consentire di eluderlo sol che si sia allacciato un rapporto qual che sia tra i “committenti” ed il nato. Al contrario, l’interesse del minore consiste nel salvare l’esistente quando la sua rimozione comporti un sacrificio sproporzionato rispetto al beneficio che ogni altra soluzione può dargli.

NOTE

* Il testo costituisce la traccia della relazione svolta presso il Forum nazionale 2016 “La famiglia:

dieci anni di riforme (2006-2016)” ed espone in forma sintetica le idee che l’autore ha sviluppato

in La surrogazione di maternità tra principi costituzionali ed interesse del minore (nota a Cass., 11

novembre 2014, n. 24001), in Il Corriere giuridico, 2015, p. 474 ss. e in La surrogazione di

maternità ed il diritto di famiglia al bivio, in Europa e diritto privato, 2015, p. 415 ss.