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Convivenze, unioni civili, adozioni

autore: E. Bilotti

Sommario: 1. Premessa. - 2. La giurisprudenza favorevole all’adozione del figlio del convivente. - 3. L’impianto sistematico dei “casi particolari” di adozione. - 4. Le ragioni delle scelte del legislatore del 1983. - 5. La conferma delle scelte di fondo del legislatore del 1983 nella sentenza della Corte costituzionale n. 383/1999. - 6. La conferma dell’impianto sistematico del 1983 nella recente legge n. 173/2015. - 7. La ratio della regola di stepchild adoption di cui alla lett. b) dell’art. 44 della legge n. 184/1983. - 8. L’adozione del figlio del partner dello stesso sesso: l’inequivocabile soluzione negativa della legge n. 76/2016. - 9. La ragionevolezza della scelta del legislatore del 2016 in ordine all’esclusione dell’adozione del figlio del partner dell’unione civile. - 10. L’impropria prospettazione del problema dell’ambito di applicazione della regola di stepchild adoption in termini di non discriminazione. - 11. L’unione civile tra persone dello stesso sesso: un rapporto di status? - 12. Il problema dell’accesso all’adozione anche da parte di tutte le coppie conviventi e delle coppie unite civilmente. - 13. La disciplina organica dei rapporti di convivenza, il principio di unicità dello stato di figlio e l’individuazione dei requisiti soggettivi dell’adozione: tre questioni distinte. - 14. L’adozione semplice da parte della persona singola e della coppia coniugata: la ragionevolezza della scelta del legislatore del 1983. - 15. L’esclusione dell’adozione dei minori abbandonati da parte della coppia unita civilmente: la ragionevolezza della scelta del legislatore del 2016. - 16. La problematica legittimità costituzionale di un matrimonio tra persone dello stesso sesso. La “struttura fondamentale” del matrimonio e la norma personalista.



1. Premessa



Il dibattito che ha accompagnato l’elaborazione della legge n. 76/2016 in tema di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina della convivenze e quello che sta ora facendo seguito alla sua entrata in vigore ha riproposto all’attenzione dell’interprete i due distinti problemi della estensione anche alle coppie di conviventi, di sesso differente o dello stesso sesso, della regola di stepchild adoption – o adozione coparentale – e della possibilità di adottare minori in stato di abbandono. Entrambe le questioni, poi, si pongono ora anche rispetto alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto l’unione civile. In verità il legislatore del 2016 non ha ritenuto di adottare soluzioni innovative su nessuna delle problematiche indicate. E ciò né con riferimento alle coppie conviventi, formate da persone di sesso differente o dello stesso sesso, né con riferimento alle coppie unite civilmente. Com’è noto, tuttavia, almeno in tema di adozione coparentale, già prima dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016, si è registrato un certo attivismo giurisprudenziale, che ha coinvolto ormai anche i giudici di legittimità. Per quanto riguarda i requisiti soggettivi per l’adozione dei minori abbandonati, invece, crescono in dottrina prese di posizione, anche autorevoli, nel senso di una revisione non più differibile dell’assetto normativo concepito dal legislatore del 1983, ritenuto ormai non più corrispondente alla legalità costituzionale.



2. La giurisprudenza favorevole all’adozione del figlio del convivente



Quanto anzitutto alla questione dell’adozione coparentale, il discorso deve necessariamente prendere le mosse dalla constatazione del consolidarsi di un orientamento giurisprudenziale favorevole al ricorso alla regola di cui all’art. 44, lettera d), della legge 184/1983 al fine di consentire l’adozione del figlio di un convivente da parte dell’altro, di sesso differente o dello stesso sesso. E ciò in virtù di una lettura estensiva di quella norma, la quale, nel permettere l’adozione cd. semplice dei minori anche “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, ricomprenderebbe nel suo ambito di applicazione, oltre al caso del minore dichiarato in stato di abbandono, per il quale la prospettiva di un’adozione piena appaia però concretamente impraticabile (l’ipotesi della cd. impossibilità di fatto), anche il caso del minore che non risulti privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi (l’ipotesi della cd. impossibilità di diritto). Com’è noto, nella giurisprudenza di merito, la possibilità dell’adozione del figlio di un convivente da parte dell’altro è stata riconosciuta anzitutto nel caso di coppie conviventi formate da persone di sesso differente. Si è pronunciato in tal senso dapprima il Tribunale di Milano, nel marzo del 2007. Poi, nell’ottobre del 2012, è stata la volta della Corte di Appello di Firenze. In entrambe i casi, a quanto pare, senza destare un interesse particolare tra gli studiosi della materia. Tutt’altro clamore hanno suscitato invece le decisioni di merito che, ormai piuttosto numerose, a partire da una decisione del Tribunale per i Minorenni di Roma della fine di luglio del 2014, hanno consentito, sempre in forza della regola della lettera d) dell’art. 44, l’adozione del figlio del convivente dello stesso sesso dell’adottante. Quella prima pronuncia è stata confermata dal giudice di appello alla fine del 2015; nel giugno di quest’anno, poi, ha superato indenne anche il vaglio di legittimità da parte della prima sezione civile della Suprema Corte. Frattanto sono sopraggiunte altre decisioni dello stesso segno sempre del Tribunale di Roma, ma anche di altri importanti giudici italiani di merito, in particolare delle Corti di Appello di Milano e di Torino. In verità, nella stessa giurisprudenza di merito, non sono mancate neppure prese di posizione di segno contrario: il Tribunale per i Minorenni di Torino ha parlato addirittura di “una lettura eversiva della norma [della lettera d) dell’art. 44], che diviene così, inammissibilmente, un grimaldello per forzare la struttura stessa della tutela offerta al minore”. Nondimeno, in occasione di una recente decisione della fine del mese di settembre, relativa alla differente questione della trascrivibilità nei registri italiani dello stato civile di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due don ne, sempre i giudici della prima sezione civile della Corte di cassazione, in un passaggio della motivazione, hanno avuto modo di ribadire con enfasi la validità della propria decisione di giugno. D’altra parte, da ultimo, con due elaborate decisioni della fine del mese di ottobre di quest’anno il Tribunale per i Minorenni di Milano ha già avuto modo di prendere posizione contro l’orientamento della giurisprudenza di legittimità. Quanto alla dottrina, poi, a differenza di quanto è avvenuto per le decisioni relative all’adozione da parte del convivente di sesso differente dal genitore, le prese di posizione in ordine al recente fermento giurisprudenziale sono state già numerose e di segno assai diverso. Taluni condividono con entusiasmo l’innovativa proposta interpretativa (Palazzo, Stefanelli, Long, ecc.), auspicata peraltro da una parte della dottrina già prima della decisione del Tribunale di Roma del luglio del 2014 (Ferrando). Ma vi è anche chi, autorevolmente, non esita a riconoscerne, senza mezzi termini, la non conformità al diritto vigente (Sesta) e il carattere di obiettiva forzatura (C. M. Bianca).



3. L’impianto sistematico dei “casi particolari” di adozione



In effetti, il riferimento alla regola della lettera d) dell’art. 44 appare alquanto sorprendente. Sembra infatti corretto suddividere i “casi particolari” di adozione dei minori in due grandi gruppi a seconda che la costituzione in capo al minore di un ulteriore rapporto genitoriale serva a far fronte a una situazione patologica di definitiva mancanza di accudimento da parte dei suoi genitori o a favorirne la crescita serena e armonica in un contesto familiare stabile e unitario. Al primo gruppo devono essere ricondotte le ipotesi di cui alle lettere a), c) e d) dell’art. 44, mentre il secondo gruppo s’identifica con la regola di stepchild adoption di cui alla lettera b). Ora, com’è del tutto evidente, almeno di regola, la spinta ad adottare il figlio del proprio convivente, di sesso differente o dello stesso sesso, non nasce comunque dall’esigenza di far fronte a una situazione di definitiva mancanza di cura da parte del genitore. Certi casi sono del tutto marginali e, almeno nel caso della morte dell’unico genitore accudente, si prestano agevolmente a essere risolti facendo ricorso alla regola della lettera a) dell’art. 44. L’obiettivo che normalmente ci si prefigge è piuttosto quello di dar vita, in una situazione di piena efficienza del rapporto genitoriale esistente, a un contesto familiare stabile e unitario, in cui il minore possa crescere serenamente con due figure genitoriali di riferimento. La regola della lettera d) dell’art. 44 non ha però nulla a che vedere col soddisfacimento di una simile esigenza, giacché, come s’è detto, a differenza di quella della lettera b), ma similmente a quelle delle lettere a) e c), è pur sempre chiamata a risolvere un problema di difetto di cura genitoriale. Non sembra infatti davvero sostenibile l’idea che la lettera d) debba intendersi come una sorta di clausola residuale applicabile a prescindere dall’occorrenza di una situazione patologica di definitiva mancanza di assistenza del minore da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi. In tal senso sono stati addotti diversi argomenti. In particolare, il Tribunale di Torino ha fatto osservare che, se la regola della lettera d) dovesse applicarsi nel senso ora fatto proprio anche dai giudici della prima sezione civile della Suprema Corte, allora, almeno in linea di principio, dovrebbe trovare accoglimento ogni domanda di adozione semplice di minori accuditi da uno o da entrambi i genitori purché proposta da soggetti che abbiano consolidato con gli adottandi un rapporto affettivo stabile di cura e di educazione, con la conseguente possibilità di una moltiplicazione ingiustificata e incontrollabile di figure genitoriali: un risultato, questo, davvero paradossale, ma soprattutto sicuramente incompatibile col precetto costituzionale che limita il ricorso alla genitorialità artificiale ai soli “casi di incapacità dei genitori” a far fronte ai propri compiti (art. 30, comma 2, Cost.). Si tratta di un argomento sicuramente apprezzabile. Ma forse, da un punto di vista rigorosamente sistematico, è altrettanto interessante osservare che, se davvero la lettera d) dovesse applicarsi a prescindere da una situazione di definitiva mancanza di assistenza del minore da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, diverrebbe allora del tutto incomprensibile la regola di cui alla lettera a), la quale, solo per il caso dell’orfano di padre e di madre, consente l’adozione semplice – e dunque permette all’aspirante adottante di sottrarsi a requisiti e procedure previsti per l’adozione piena – anche da parte di persone unite al minore da preesistente rapporto stabile e duraturo. Davvero si fatica a comprendere, infatti, quale senso si dovrebbe dare a una simile previsione nella prospettiva interpretativa adottata dai giudici della prima sezione civile della Suprema Corte: perché mai il legislatore avrebbe dettato una regola specifica per il caso dell’orfano di padre e di madre se poi chi può vantare col minore un rapporto stabile e duraturo può ottenerne l’adozione semplice – e perciò sottrarsi ai requisiti e alle procedure previsti per l’adozione piena – anche al di là di quel caso – e dunque anche quando la definitiva mancanza di assistenza non è dovuta alla morte dei genitori e perfino quando il rapporto genitoriale esistente è senz’altro efficiente?



4. Le ragioni delle scelte del legislatore del 1983



Riflettere su questi interrogativi consente di comprendere in profondità il sistema dei “casi particolari” di adozione originariamente pensato dal legislatore del 1983, un sistema che è uscito peraltro sostanzialmente confermato anche dai successivi interventi del legislatore sull’art. 44, e segnatamente sia dall’intervento del 2001 – invero poco rilevante in considerazione del suo carattere “settoriale” – sia soprattutto dall’intervento del 2015 – ben più significativo, come si dirà, nell’ottica di una conferma della perdurante validità dell’approccio originario. In effetti, il legislatore del 1983 ha chiaramente riservato una distinta considerazione al caso in cui la mancanza definitiva di accudimento di un minore da parte dei genitori sia stata determinata dalla loro morte rispetto a tutte le altre ipotesi in cui, per le cause più diverse, può determinarsi un’analoga situazione patologica del rapporto di responsabilità genitoriale. Solo nel primo caso il legislatore ha riconosciuto la possibilità di convertire in un rapporto genitoriale col minore, sia pure del tutto peculiare, il rapporto affettivo consolidato con un parente, ma anche con un estraneo. E ciò anche quando ricorrerebbero i presupposti per una formale dichiarazione di abbandono, e dunque per avviare il minore all’adozione piena. Solo nel caso dell’orfano, dunque, in vista di una migliore realizzazione dell’interesse del minore, il legislatore ha ritenuto che sia possibile dare veste giuridica a una soluzione già consolidatasi nei fatti all’interno della sua cerchia affettiva. E ciò anche con preferenza rispetto al ricorso all’adozione piena, rinunciando così all’applicazione delle procedure e dei requisiti previsti per quest’ultima. In tutti gli altri casi di abbandono, invece, quelle procedure e quei requisiti sono reputati ineludibili e il ricorso all’adozione semplice è previsto solo in via subordinata, laddove l’adozione piena si sia rivelata una soluzione concretamente impraticabile. Questa scelta non è evidentemente senza ragione. Per il legislatore del 1983, infatti, solo un abbandono forzato e non volontario, com’è certamente quello determinato dalla morte dei genitori, consente di escludere in radice il sospetto di una collusione in vista di un’adozione elusiva delle procedure e dei requisiti soggettivi previsti per l’adozione piena a salvaguardia della migliore realizzazione dell’interesse del minore (cfr. Rossi Carleo). Negli altri casi, invece, quando l’abbandono da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi potrebbe anche essere volontario, è sembrato piuttosto opportuno subordinare comunque al rispetto di quelle procedure e di quei requisiti soggettivi la possibilità di dare veste giuridica anche a un rapporto di cura già consolidatosi nei fatti all’interno della cerchia affettiva del minore. È questo allora il senso complessivo all’interno del quale le due previsioni distinte della lettera a) e della lettera d) dell’art. 44 possono essere adeguatamente comprese e, per così dire, si illuminano a vicenda: un senso per cui anche la regola di cui alla lettera d) presuppone pur sempre, inequivocabilmente, l’occorrenza di una situazione patologica di definitiva mancanza di assistenza del minore da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi. Sicché l’unica ipotesi di adozione semplice che prescinde da questo presupposto è rappresentata appunto, come si è già detto, dalla regola di stepchild adoption di cui alla lettera b).



5. La conferma delle scelte di fondo del legislatore del 1983 nella sentenza della Corte costituzionale n. 383/1999



Ora, a ben vedere, una simile rappresentazione del sistema dei “casi particolari” di adozione dei minori non è affatto smentita – ed è anzi confermata – proprio da quella decisione della Corte costituzionale ampiamente richiamata dai giudici di merito e di legittimità al fine di argomentare nel senso di un’applicazione indiscriminata della regola della lettera d) finanche in presenza di un rapporto genitoriale del tutto efficiente, e cioè dalla sentenza n. 383/1999. Com’è noto, la decisione indicata ha ritenuto non fondata con riferimento agli artt. 3 e 30, comma 2, Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’allora lettera c) – oggi d) – dell’art. 44, laddove non avrebbe consentito, almeno secondo il giudice remittente, l’adozione da parte del parente entro il quarto grado che si prenda cura di un minore rimasto definitivamente privo di accudimento da parte di genitori non defunti. Per il giudice delle leggi un esito di questo tipo sarebbe infatti già praticabile senza dover dar corso ad alcun tipo di intervento additivo. E ciò perché – si dice – non sarebbe corretto il presupposto interpretativo secondo cui, per far ricorso all’ipotesi di adozione semplice prevista dalla regola in questione, occorre necessariamente la previa dichiarazione dello stato di abbandono del minore e quindi la declaratoria formale di adottabilità, nonché il vano tentativo di affidamento. In realtà, al di là di certe espressioni esorbitanti utilizzate nella motivazione, con la decisione in questione la Corte costituzionale si è limitata a riconoscere che il parente entro il quarto grado, che si prenda cura di un minore rimasto definitivamente privo di assistenza da parte di genitori ancora in vita, deve poterlo adottare, esattamente come, ai sensi della lettera a) dell’art. 44, può adottare l’orfano di padre e di madre, e dunque anche in mancanza dei requisiti soggettivi previsti per l’adozione piena e senza il rispetto delle procedure della stessa, che, peraltro, non potrebbero comunque venire in considerazione, in quanto il minore non potrebbe essere dichiarato adottabile. Non è minimamente rilevante in questa sede sottoporre questa statuizione a una critica accurata, che pure potrebbe forse portare a risultati interessanti. Ciò che qui importa è piuttosto mettere in chiaro che con quella decisione il giudice delle leggi non ha minimamente inteso autorizzare, al di là del caso dell’orfano previsto dalla lettera a), né la possibilità di un’adozione semplice da parte di parenti oltre il quarto grado o di estranei né, tanto meno, la possibilità di un’adozione semplice anche a prescindere da una qualsiasi situazione patologica del rapporto di responsabilità genitoriale. La conferma di quest’assunto si ricava, come si diceva, dalla stessa sentenza. Nel medesimo giudizio era stata infatti sollevata, sempre con riferimento agli artt. 3 e 30, comma 2, Cost., anche la questione di legittimità della lettera a) dell’art. 44. E ciò evidentemente sempre al fine di raggiungere il risultato di consentire anche al parente entro il quarto grado l’adozione semplice del minore rimasto definitivamente privo della cura dei genitori ancora in vita. Estendendo però la regola della lettera a) ad ogni caso di incapacità dei genitori a far fronte ai propri compiti, e consentendo dunque l’adozione semplice da parte di un parente oltre il quarto grado o dell’estraneo che avesse maturato con esso un rapporto stabile e duraturo anche al di là del solo caso dell’orfano, quel risultato sarebbe stato raggiunto in un modo che avrebbe lasciato una traccia ben più significativa sul sistema dei “casi particolari” di adozione, scardinandolo completamente. Ebbene, in quella circostanza il giudice delle leggi, avendo ritenuto, come s’è detto, che una corretta interpretazione della lettera d) già consentisse l’adozione semplice da parte dello zio anche in caso di decadenza dei genitori da quella che allora si chiamava ancora potestà genitoriale e avendo perciò rinunciato a perseguire la diversa strada, che pure gli era stata prospettata, di un intervento abrogativo parziale della lettera a), ha mostrato con ciò di condividere e di voler preservare l’impianto sistematico dei “casi particolari” di adozione concepito dal legislatore del 1983. Può ben ritenersi, insomma, che anche per il giudice delle leggi, al di là del caso dell’orfano di padre e di madre, non dovrebbe essere possibile sfuggire all’applicazione delle procedure e dei requisiti soggettivi previsti per l’adozione piena per favorire la giuridificazione di una qualsiasi soluzione della situazione di abbandono del minore purché già consolidatasi nella cerchia affettiva del minore. Non vale dunque enfatizzare superficialmente certe formulazioni obiettivamente ambigue utilizzate dal giudice delle leggi nel motivare la propria decisione. Da una lettura attenta di quella decisione si ricava piuttosto che la ritenuta interpretazione estensiva del presup posto della “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” non può comunque spingersi al di là dello specifico caso venuto all’attenzione di quel giudice: quello in cui il minore rimasto definitivamente privo di assistenza da parte di genitori ancora in vita è accudito da un parente entro il quarto grado e non può pertanto essere dichiarato adottabile. In nessun modo, quindi, la sentenza n. 383/1999 potrebbe autorizzare una lettura della lettera d) tale da consentire, in ogni caso di abbandono, l’adozione semplice – e dunque la disapplicazione di procedure e requisiti soggettivi previsti per l’adozione piena – da parte di chiunque abbia maturato col minore un rapporto affettivo stabile. Né, a più forte ragione, quella sentenza potrebbe autorizzare un’applicazione di quella regola anche in casi in cui il genitore non si è sottratto alle proprie responsabilità nei confronti del figlio né ha intenzione di farlo.



6. La conferma dell’impianto sistematico del 1983 nella recente legge n. 173/2015



Come già si è detto, il sistema dei “casi particolari” di adozione concepito dal legislatore del 1983 – e cioè il sistema per cui l’adozione semplice di un minore è consentita, ove ricorra una situazione di abbandono da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi e al di là del caso dell’orfano di padre e di madre, solo in subordine rispetto all’adozione piena, quando quest’ultima si sia rivelata concretamente impraticabile, mentre l’unica adozione semplice che può essere disposta in presenza di un rapporto genitoriale efficiente è la stepchild adoption di cui alla lettera b) – questo sistema sembra da ultimo aver trovato un’ulteriore conferma anche nella recente legge 19 ottobre 2015, n. 173 sul diritto alla continuità affettiva dei bambini in affido familiare. Per rendersene conto è sufficiente soffermarsi su taluni dei contenuti più significativi di quel recente intervento. Il legislatore del 2015, infatti, integrando opportunamente l’art. 4 l. ad., ha previsto, tra l’altro, che “qualora durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile… e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’art. 6, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria”. Sempre il legislatore del 2015, poi, ha pure integrato la previsione della lettera a) dell’art. 44, precisando che il “rapporto stabile e duraturo” che consente l’adozione semplice dell’orfano di padre e di madre può essere “anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento”. Non ha invece ritenuto di dover intervenire in alcun modo sul disposto della lettera d) dell’art. 44. Eppure, com’è stato opportunamente osservato, mentre nel caso della lettera a) la precisazione non era forse così necessaria, giacché è nelle cose che “nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento” possa maturare un rapporto affettivo stabile di educazione e di cura col minore, nel caso della lettera d), invece, sarebbe stata quanto mai utile a legittimare quell’orientamento di una parte della giurisprudenza di merito, secondo cui, a prescindere dalla “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”, l’adozione semplice può essere domandata non solo da un parente entro il quarto grado, come ha chiarito la Corte costituzionale, ma anche da chi abbiano frattanto ricevuto il minore in affidamento temporaneo (cfr. Lenti).

Ebbene, il mancato intervento del legislatore del 2015 sul testo della lettera d), soprattutto se confrontato con la precisazione che si è invece inserita nel testo della lettera a), non può che essere inteso come una chiara volontà di prendere le distanze da quell’orientamento giurisprudenziale, effettivamente eccentrico rispetto al descritto impianto sistematico dei “casi particolari” di adozione originariamente concepito dal legislatore del 1983. Certe opzioni del legislatore del 2015 devono dunque risaltare allo sguardo attento dell’interprete come un’ulteriore conferma del fatto che l’adozione semplice da parte di chi abbia maturato col minore un rapporto affettivo stabile e duraturo può essere disposta, con preferenza rispetto all’adozione piena, unicamente nel caso dell’orfano di padre e di madre, mentre in tutti gli altri casi di abbandono del minore da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi le procedure e i requisiti previsti per l’adozione piena non possono ritenersi eludibili. Né sembra possibile sostenere, come pure è stato fatto, che escludere la rilevanza di un prolungato periodo di affidamento ai fini dell’adozione semplice di cui alla lettera d) sia una scelta irragionevolmente discriminatoria, destinata a essere travolta, presto o tardi, dalla Corte costituzionale o dalla giurisprudenza ordinaria “ricorrendo a una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata” (Lenti). Come si è visto, infatti, almeno fino a questo punto, il giudice delle leggi, pur avendone avuto l’occasione, non ha ritenuto di dover mettere in discussione l’impianto sistematico dei “casi particolari” di adozione concepito dal legislatore del 1983, rispetto al quale certe scelte del legislatore del 2015 appaiono senz’altro coerenti. Del resto, come pure si è già detto, quell’impianto non è affatto privo di una sua ragionevolezza in funzione della migliore realizzazione dell’interesse del minore.



7. La ratio della regola di stepchild adoption di cui alla lett. b) dell’art. 44 della legge n. 184/1983



I dati normativi attestano dunque come la lettera d) dell’art. 44 sia sempre chiamata a risolvere un problema di difetto di cura genitoriale. Ne consegue che quella regola non dovrebbe poter venire in considerazione in presenza di un rapporto genitoriale normalmente efficiente. Ma è appunto questa la situazione che si dà, almeno di regola, nei casi in cui è stata avanzata un’istanza di adozione da parte del convivente del genitore dell’adottando. In nessun modo, quindi, la giurisprudenza avrebbe potuto far riferimento alla regola della lettera d) nell’accogliere certe istanze. In realtà, i nostri giudici, evidentemente intenzionati a darvi corso comunque, hanno fatto ricorso alla regola della lettera d), unicamente perché la regola della lettera b) – la sola che consente di disporre un’adozione pur in presenza di un rapporto genitoriale efficiente – dallo stesso legislatore è stata confinata al caso in cui adottante e genitore dell’adottando siano stretti dal vincolo coniugale, con esclusione dunque della rilevanza di qualsiasi altro rapporto di coppia. Evidentemente ai nostri giudici qualsiasi ricorso a tecniche analogiche deve essere sembrato improponibile. Tant’è che, a quanto pare, neppure hanno tentato di perseguire questa strada. Anche in dottrina, del resto, le rarissime prese di posizione in questo senso sono rimaste del tutto isolate. In effetti, il dato normativo appare inequivocabile nel connettere la regola in questione non tanto con la sostanza del rapporto di coppia tra l’adottante e il genitore dell’adottando, ma con la particolare forma di qualificazione giuridica di quel rapporto, e cioè con la sua specifica natura di rapporto coniugale. L’interprete potrebbe nondimeno chiedersi se una simile scelta del legislatore sia davvero ragionevole, e dunque se un’applicazione estensiva o analogica della regola di stepchild adoption non debba comunque ammettersi in forza del canone dell’interpretazione costituzionalmente conforme o se a tal fine non sia necessario un intervento del giudice delle leggi o ancora, all’opposto, se quella regola non rientri nell’ambito delle scelte politiche legittime, in cui al legislatore è riconosciuto “il diritto di essere diseguale”. Per provare a rispondere a questo interrogativo sembra anzitutto opportuno richiamare un dato fondamentale al quale si è già avuto modo di fare riferimento in precedenza, e cioè che, in base all’art. 30, comma 2, Cost., l’ordinamento consente di dar vita a un rapporto genitoriale artificiale solo in caso di incapacità dei genitori a far fronte ai propri compiti. E ciò, com’è evidente, al fine di evitare che, in un ordinamento fondato sulla dignità della persona umana, proprio il rapporto genitoriale, che, in quanto rapporto di status, coinvolge la persona nella sua integrità, possa finire per essere concepito in una logica puramente oggettuale di reciproca strumentalizzazione, del minore da parte dell’adulto o anche del genitore da parte del figlio. Ne consegue che un rapporto artificiale che va ad aggiungersi a un altro rapporto genitoriale già esistente e pienamente efficiente, non potendo certo trovare la propria ragion d’essere nel soddisfacimento di un’esigenza di cura del minore, si giustifica solo in via del tutto eccezionale, nella misura in cui il minore stesso possa ricavarne un beneficio ulteriore per la sua crescita. Ora, a ben vedere, ciò è davvero possibile solo se l’adozione consente di dar vita a un contesto familiare tendenzialmente stabile, in cui il minore possa crescere serenamente con due figure genitoriali di riferimento, e perciò solo se il rapporto tra adottante e genitore dell’adottando si caratterizza per essere programmaticamente sottratto alla loro disponibilità, e dunque per essere giuridicamente configurato come un rapporto di status, come è appunto il rapporto coniugale. Ne consegue anzitutto che deve considerarsi senz’altro ragionevole la scelta del legislatore di far dipendere l’operatività della regola di stepchild adoption non dalla semplice esistenza di un rapporto di coppia tra adottante e genitore dell’adottando, ma da una particolare forma di qualificazione giuridica di quel rapporto, e segnatamente dalla sua configurazione in termini di status. Ma non solo. Si può forse riconoscere anche che sarebbe tutt’altro che ragionevole una regola di stepchild adoption fondata solo sull’esistenza di un rapporto di coppia tra l’adottante e il genitore dell’adottando a prescindere dalla sua configurazione giuridica in termini di status. La possibile mancanza di stabilità di quel rapporto dovrebbe infatti far escludere che il minore possa conseguire alcun autentico beneficio aggiuntivo dalla costituzione di un ulteriore legame genitoriale artificiale che non serve certo a soddisfare un’esigenza di cura. Né vale osservare in contrario che l’elevato numero di separazioni e divorzi mostra come in realtà neppure il legame coniugale garantisce di per sé una maggiore stabilità della coppia e che perciò il vincolo coniugale tra adottante e genitore dell’adottando non è di per sé idoneo a garantire quest’ultimo più di quanto possa fare un semplice rapporto di convivenza. La stabilità della coppia che rileva ai fini della giustificazione di una regola di stepchild adoption è infatti un dato puramente normativo. Non può che rimanere del tutto irrilevante, invece, il modo in cui quel vincolo è concretamente vissuto dai consociati: il dato “sociologico” della stabilità dei matrimoni, deducibile dal numero delle separazioni e dei divorzi e dal loro tasso di crescita. È vero poi che in alcuni ordinamenti stranieri la regola di stepchild adoption è stata concepita in modo da trovare applicazione sia nel caso di un rapporto di coppia istituzionalizzato sia nel caso di un rapporto di coppia non istituzionalizzato (es.: Adoption and Children Act 2002, s. 51). Si deve tuttavia prendere atto del fatto che più sfuma la percezione del significato della configurazione del rapporto coniugale in termini di status – da parte degli interpreti, ma anche da parte dei legislatori, con l’introduzione di forme di divorzio by agreement o addirittura on demand – più diviene difficile comprendere perché dovrebbe consentirsi l’adozione del figlio del coniuge e non anche quella del figlio del convivente. In ogni caso, non è forse del tutto inverosimile ipotizzare che, nelle coppie formate da persone di sesso differente, con l’avanzamento del processo di deistituzionalizzazione del rapporto coniugale, anche il ricorso alla stepchild adoption sia destinato a divenire un fenomeno sempre più marginale. Appare in effetti difficilmente comprensibile – e poco realistica – l’aspirazione ad assumere un vincolo tendenzialmente stabile nei confronti del figlio del proprio partner laddove non si sia già assunto un vincolo percepito come altrettanto stabile anche nei confronti di quest’ultimo. Il che conferma la problematicità di riconoscere la ragionevolezza di una regola che dovesse consentire anche l’adozione del figlio del proprio convivente.



8. L’adozione del figlio del partner dello stesso sesso: l’inequivocabile soluzione negativa della legge n. 76/2016



Il problema assume evidentemente tutt’altro significato nelle coppie formate da persone dello stesso sesso. Infatti, a parte i casi marginali di figli nati da precedenti relazioni con partner di sesso differente, l’adozione del figlio del partner dello stesso sesso rappresenta in genere un passaggio indispensabile, almeno sotto il profilo giuridico-formale, per dare definitivamente corpo a un progetto condiviso di bigenitorialità, la cui realizzazione non può però prescindere dall’impiego di tecniche di fecondazione assistita vietate dalla legge italiana: la surrogazione di maternità con ricorso a una “donatrice” estranea alla coppia o la fecondazione eterologa con ricorso a un “donatore” estraneo alla coppia ed eventualmente anche con gestazione a carico della donna che non abbia fornito il materiale genetico per l’inseminazione. È noto, infatti, che mentre la surrogazione di maternità è vietata in ogni caso, il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo è consentito solo a coppie formate da persone di sesso differente e sempre che si tratti di far fronte a problemi di sterilità o infertilità non altrimenti risolvibili. È significativo, del resto, che il recente fermento che si è registrato in giurisprudenza sul tema dell’adozione del figlio del convivente è stato generato unicamente da casi di questo tipo. Di recente il legislatore italiano, nel regolare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, sembra aver assunto una posizione di netta contrarietà nei confronti della possibilità di estendere anche al partner dell’unione civile la regola di stepchild adoption della lettera b) dell’art. 44. Al comma 20 dell’unico articolo di cui si compone la l. 20 maggio 2016 n. 76 si è infatti precisato che la clausola cd. “di effettività della tutela” – e cioè la regola secondo cui “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti la parola ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso” – non vale né con riferimento “alle norme del codice civile non richiamate espressamente” nella stessa l. n. 76/2016 né con riferimento “alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983 n. 184”. D’altra parte, l’ulteriore precisazione contenuta sempre al medesimo comma 20, secondo cui “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”, da sé non può certo valere a legittimare un orientamento giurisprudenziale che, come si è cercato di chiarire fin qui, nelle norme vigenti non trova alcun riscontro e deve pertanto ritenersi extra legem se non addirittura contra legem. La volontà del legislatore tutt’altro che favorevole all’adozione del figlio del partner di un’unione civile risulta chiaramente, del resto, dal fatto che, nel corso del sofferto iter di approvazione della l. n. 76/2016, alla fine si è deciso di lasciar cadere la previsione, originariamente inserita nel disegno di legge, volta a estendere anche al partner dell’unione civile la regola di stepchild adoption della lettera b) dell’art. 44.



9. La ragionevolezza della scelta del legislatore del 2016 in ordine all’esclusione dell’adozione del figlio del partner dell’unione civile



Ciò posto all’interprete non rimane che interrogarsi sulla ragionevolezza di una simile scelta. Le motivazioni che l’hanno sostenuta sono evidenti: ben consapevole del fatto che, nelle coppie formate da persone dello stesso sesso, l’esigenza dell’adozione del figlio del partner emerge per lo più a seguito del ricorso a pratiche vietate dalla legge italiana, escludendone la possibilità il legislatore del 2016 ha inteso ribadire ulteriormente la propria valutazione negativa in ordine alla liceità di certi progetti procreativi. In effetti, quand’anche messi in atto al di fuori dei nostri confini, quei progetti finiscono comunque per recare un grave pregiudizio anzitutto al valore fondante della dignità della persona. Questo dato appare addirittura indubitabile nel caso della surrogazione di maternità. Ma, a ben vedere, un pregiudizio per la dignità della persona non sembra assente neppure nel caso della semplice fecondazione eterologa, giacché l’impiego di quella tecnica dà comunque corso alla subordinazione del diritto alla genitorialità naturale a un preteso diritto di essere genitore in una logica di strumentalizzazione del nato. Con la sentenza n. 162/2014 il giudice delle leggi ha mostrato nondimeno di non essere particolarmente sensibile a questo tipo di approccio, che pure sembrerebbe trovare un riscontro chiaro nell’art. 30 Cost. In ogni caso, a seguito di quella sentenza, la scelta legislativa di non ammettere alla procreazione artificiale la coppia formata da persone dello stesso sesso può ormai trovare una giustificazione solo provando ad attribuire rilevanza all’interesse del minore a sviluppare la propria personalità nel rapporto potenziale con due figure genitoriali di sesso diverso. Nondimeno la nostra giurisprudenza di legittimità ha già mostrato in più occasioni di non condividere un simile assunto, sicché a più di un interprete il divieto di accedere alla fecondazione eterologa per le coppie formate da persone dello stesso sesso – e segnatamente per le coppie formate da due donne – appare ormai un dato piuttosto precario. Almeno fino ad ora, tuttavia, si tratta pur sempre di un dato col quale fare i conti. In ogni caso, l’interprete che si interroghi seriamente sulla ragionevolezza della scelta del legislatore del 2016 di escludere l’adozione del figlio del partner dell’unione civile deve farsi carico dell’obiezione – legittima, ma forse, nel caso di specie, solo apparente – secondo cui il legislatore “deve sempre fare i conti con i fatti”, sottraendosi non solo all’atteggiamento unilaterale di “chi pretende di confondere i fatti con le norme”, ma anche all’atteggiamento opposto, non meno unilaterale e ideologico, di “chi si attacca ai divieti non volendo guardare alla realtà” (Nicolussi). Ebbene, la realtà del rapporto affettivo del genitore col suo partner e di uno e/o dell’altro col nato non può certo essere messa in discussione da nessun dato normativo, neppure adducendo il fatto che la nascita si è determinata solo in virtù di una violazione della legge. Una simile pretesa, prima ancora che manifestamente illegittima, sarebbe semplicemente grottesca. D’altra parte, assegnare uno status di tipo genitoriale, evidentemente del tutto artificiale, anche al partner del genitore significherebbe assecondare un progetto di strumentalizzazione del nato in contraddizione col canone della dignità della persona e quindi anche dell’interesse del minore. È qui infatti che si colloca la profonda differenza tra questo genere di casi e quelli ai quali può invece applicarsi la regola di stepchild adoption di cui alla lettera b) dell’art. 44, giacché quando ad adottare è il coniuge del genitore la generazione non è stata certo voluta in vista dell’adozione. Escludere l’adozione non significa tuttavia che l’interprete – e forse anche il legislatore – non debbano impegnarsi nell’escogitare regole adatte a interpretare la realtà di un rapporto affettivo senza favorirne la progettata degenerazione strumentale. Un chiaro esempio di ciò che si intende dire è offerto ora dalla sentenza n. 225/2016, nella quale il giudice delle leggi ha indicato all’interprete come, anche in assenza di un rapporto genitoriale o di un diverso rapporto parentale, è senz’altro possibile farsi carico del problema della salvaguardia della continuità affettiva ove, in conseguenza della rottura del rapporto di coppia, il genitore non consenta al figlio di continuare ad avere una consuetudine di vita con l’ex partner dello stesso sesso. La Corte costituzionale ha infatti riconosciuto che “l’interruzione ingiustificata, da parte di uno o di entrambi i genitori, in contrasto con l’interesse del minore, di un rapporto significativo, da quest’ultimo instaurato e intrattenuto con soggetti che non siano parenti, è riconducibile all’ipotesi di condotta del genitore ‘comunque pregiudizievole al figlio’, in relazione alla quale l’art. 333 [c.c.] già consente al giudice di adottare ‘i provvedimenti convenienti’ nel caso concreto”. La Corte ha perciò escluso l’esistenza di un vuoto di tutela quanto all’eventuale interesse del minore a conservare rapporti col convivente del proprio genitore. E ciò senza dover assimilare artificialmente quel rapporto a un qualche vincolo di sangue.



10. L’impropria prospettazione del problema dell’ambito di applicazione della regola di stepchild adoption in termini di non discriminazione



Da ultimo è forse opportuno dar conto del fatto che, con sempre maggiore insistenza, soprattutto sulla scorta della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il problema dell’adozione del figlio del partner dello stesso sesso è prospettato come un problema di non discriminazione tra coppie formate da persone di sesso differente e coppie formate da persone dello stesso sesso. In particolare, com’è noto, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo sembra consolidarsi un orientamento secondo cui il principio di non discriminazione in base all’orientamento sessuale imporrebbe ai singoli legislatori nazionali di estendere anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso la regola di stepchild adoption eventualmente prevista per le coppie formate da persone di sesso differente laddove lo statuto giuridico delle prime coppie sia comparabile a quello delle seconde nel cui ambito quella regola è destinata a operare. Un approccio di questo tipo appare invero piuttosto sbrigativo e superficiale. Come è stato detto con grande chiarezza, infatti, “il problema della filiazione non può essere letto attraverso la lente della non discriminazione degli adulti perché qui non è in gioco il diritto degli adulti ma unicamente il diritto del figlio e tale diritto può essere accordato solo nel prevalente interesse del minore” (M. Bianca). Insomma, un’esigenza astratta di non discriminazione degli adulti non può certo realizzarsi attraverso l’agevolazione di concreti progetti di strumentalizzazione della persona umana.



11. L’unione civile tra persone dello stesso sesso: un rapporto di status?



In ogni caso, neppure ponendosi nell’ottica deformante della non discriminazione degli adulti, potrebbe apparire irragionevole la scelta del legislatore del 2016 di non consentire l’adozione del figlio del partner di un’unione civile. Come già si è detto in precedenza, infatti, poiché nel fenomeno della produzione artificiale di un rapporto genitoriale può sempre insinuarsi la logica oggettuale della reciproca strumentalizzazione, il nostro ordinamento è assai cauto nei confronti di una simile possibilità. La creazione artificiale di un rapporto genitoriale è riguardata come un’ipotesi eccezionale, che o trova ragione nel soddisfacimento di un’esigenza di cura in presenza di una situazione irreversibile di abbandono o può giustificarsi, al più, solo nella misura in cui il minore ricavi un beneficio ulteriore per la sua crescita dall’essere inserito in un contesto stabile con due figure genitoriali di riferimento. Quando non c’è abbandono, dunque, il rapporto di status tra l’adottante e il genitore dell’adottando rappresenta un presupposto necessario per dar vita a un rapporto genitoriale aggiuntivo non strumentale. Ora, però, nonostante i molti rinvii alla disciplina del matrimonio, il rapporto che nasce tra le parti di un’unione civile non sembra davvero assimilabile al rapporto coniugale. E ciò proprio perché, a ben vedere, non sembra che si tratti di uno status (contra M. Bianca). È questo un profilo estremamente rilevante, che sembra peraltro caratterizzare il modello italiano di riconoscimento dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso anche rispetto a quegli ordinamenti che, come quello tedesco, non hanno ritenuto di estendere il matrimonio anche a certi rapporti di coppia, ma hanno comunque dato corso a un loro riconoscimento in termini di status. In effetti, in base alla disciplina della legge n. 76/2016, il rapporto che nasce dall’unione civile, non facendo sorgere vincoli di affinità, è anzitutto ristretto ai soli protagonisti della coppia. Quel rapporto, inoltre, è destinato a rimanere nella piena disponibilità dei due partner, potendo cessare anche in virtù della semplice volontà unilaterale di ciascuno. Questi dati normativi, d’altra parte, sembrano perfettamente coerenti col carattere, per così dire, “minimale” del contenuto di quel rapporto sotto il profilo personale: dall’unione civile originano infatti solo doveri reciproci di assistenza morale e materiale e di coabitazione e non anche quel dovere di fedeltà, che del rapporto coniugale, almeno secondo un autorevole insegnamento, costituisce invece l’indefettibile essenza (cfr. Busnelli, Paradiso). Il linguaggio “contrattuale” che il legislatore utilizza per descrivere le modalità di costituzione dell’unione – non si parla di “celebrazione” – non è dunque un dato casuale né può essere considerato espressione di una ritrosia affettata motivata da ragioni contingenti di convenienza politica o dall’ossequio – che peraltro sarebbe solo esteriore – a una qualche ideologia dei rapporti familiari. E così è pure per l’omesso riferimento alle “esigenze… preminenti della famiglia” nella norma che fa comunque dipendere dall’accordo delle parti l’indirizzo della vita familiare. Certe formulazioni sembrano piuttosto trovare corrispondenza in un dato di sostanza, e cioè nel fatto che non sembra davvero possibile riconoscere in questo caso un rapporto di status. Né, d’altra parte, avrebbe senso un rapporto di coppia configurato giuridicamente in termini di status ove manchi quell’incidenza profonda nella vita intima della persona – e nella sua libertà di autodeterminarsi nella sfera affettiva e sessuale – che può discendere solo da una promessa giuridicamente rilevante di fedeltà “per sempre”, e cioè da una promessa capace, per la forza del diritto, di dar luogo a quella “fusione di vita con vita”, in cui Giuseppe Capograssi identificava l’essenza dell’unione coniugale e familiare. Non sussiste dunque tra le parti dell’unione civile quel vincolo di status, che caratterizza invece il rapporto coniugale e che apre alla possibilità della stepchild adoption, dando vita a quel contesto familiare stabile per cui, in concreto, anche l’adozione di un minore già accudito dal proprio genitore potrebbe non essere contraria al suo interesse. Non è un caso, del resto, che, nel corso dell’iter di approvazione della legge n. 76/2016, quei profili di disciplina che sembrano deistituzionalizzare il rapporto siano stati per lo più definiti proprio nella fase finale di elaborazione del testo, quando, come s’è detto, emerse la mancanza del necessario consenso politico all’introduzione di una regola di stepchild adoption. Beninteso, l’unione civile non è certo assimilabile a un semplice rapporto di convivenza, il quale, per quanto anch’esso sia ormai regolato dal legislatore, non attinge comunque la dignità del Sollen, ma rimane pur sempre sul piano del Sein. In effetti, anche nel caso dell’unione civile, come nel matrimonio, ma a differenza che nella convivenza, l’assistenza reciproca e la coabitazione non sono solo fatti che generano affidamenti reciproci giuridicamente tutelati, ma obblighi giuridici veri e propri. Nondimeno, al pari della convivenza e a differenza del matrimonio, il rapporto giuridico in questione non è comunque sottratto alla disponibilità dei suoi protagonisti. Può dunque escludersi senz’altro, per quel che vale, la tesi che il legislatore del 2016 abbia operato una diversificazione arbitraria tra matrimonio e unione civile sotto il profilo dell’applicazione della regola di stepchild adoption.



12. Il problema dell’accesso all’adozione anche da parte di tutte le coppie conviventi e delle coppie unite civilmente



Ciò posto, riservando a un momento successivo qualche riflessione ulteriore in ordine alla possibilità di una configurabilità in termini di status anche del rapporto di coppia tra persone dello stesso sesso, si può passare ora a trattare brevemente anche della seconda questione enunciata in apertura: quella dell’ammissibilità di un’adozione da parte della coppia convivente formata da persone di sesso differente e anche da persone dello stesso sesso, eventualmente unite civilmente. Anche su questo fronte si registrano infatti significative aperture, per il momento solo da parte della dottrina. In particolare, secondo un autorevole Studioso della materia (Sesta), “la recente novella sulla disciplina delle convivenze e, più ancora la riforma della filiazione, che ha reso ‘unico’ lo stato dei figli matrimoniali e non matrimoniali, parrebbero non giustificare più la previsione dell’art. 6, commi 1 e 4, l. n. 184/1983, che riserva solo ai coniugi (e non la attribuisce ai meri conviventi) la capacità di adottare”. Si argomenta infatti che “se… il matrimonio ha perduto l’attitudine a qualificare il rapporto di filiazione – la cui disciplina, con riguardo al rapporto genitori-figli è unica – sembra non più coerente esigere il matrimonio quale requisito per poter adottare”. E si afferma addirittura che la previsione indicata “potrebbe… apparire oggi costituzionalmente illegittima per violazione del principio di eguaglianza, in quanto dà rilevanza ad una modalità di essere della coppia richiedente, che non riveste più un ruolo specifico nella disciplina legale della relazione genitoriale”. La sopravvenuta regolamentazione delle convivenze e l’unicità dello stato di filiazione dovrebbero poi valere a rafforzare la tesi secondo cui un vizio di irragionevolezza sarebbe ravvisabile anche nella regola che non consente alle coppie conviventi neppure l’adozione semplice. Invero, nel senso indicato si fa valere anzitutto “che l’adozione da parte di una coppia convivente more uxorio appare comunque più favorevole per il minore rispetto all’adozione da parte di un singolo, in quanto la coppia, sia pur priva della stabilità del vincolo coniugale, soddisfa l’esigenza del minore di inserirsi in un nucleo familiare connotato da bigenitorialità”. Non si precisa se certe argomentazioni debbano valere sia per la coppia convivente formata da persone di sesso differente sia per quella formata da persone dello stesso sesso. E quindi, a più forte ragione, anche per la coppia formata da due persone dello stesso sesso che abbiano contratto un’unione civile. È chiaro però che la soluzione non potrebbe che essere affermativa laddove si ritenesse applicabile anche in questo caso la logica della non discriminazione in base all’orientamento sessuale, che, come si è visto, la Corte di Strasburgo ha senz’altro accolto rispetto al ben diverso problema dell’adozione del figlio del partner: un problema, quest’ultimo, assai più delicato, giacché, come pure si è detto, il ricorso alla stepchild adoption nelle coppie formate da persone dello stesso sesso è per lo più funzionale alla formalizzazione di un progetto condiviso di genitorialità che si realizza mediante il ricorso a tecniche vietate dalla legge italiana.



13. La disciplina organica dei rapporti di convivenza, il principio di unicità dello stato di figlio e l’individuazione dei requisiti soggettivi dell’adozione: tre questioni distinte



In ogni caso, anche al di là di quest’ultima questione, le argomentazioni spese a favore di una necessaria apertura delle due differenti specie di adozione dei minori anche alle coppie conviventi – anche laddove dovesse trattarsi semplicemente di quelle formate da persone di sesso differente – meritano forse un supplemento di riflessione critica. Non sembra infatti che né dalla novella sulla disciplina dei rapporti di convivenza né dalla riforma della filiazione possano trarsi argomenti inequivocabili nel senso di ritenere irragionevole – e dunque costituzionalmente illegittima – l’esclusione delle coppie non coniugate dalla possibilità dell’adozione, piena o semplice che sia. In effetti, quanto anzitutto alla disciplina della convivenza, si è già avuto modo di osservare che le pur significative novità introdotte dal legislatore del 2016 non valgono certo a trasportare la considerazione di quel rapporto di coppia dal piano dell’essere, sul quale le stesse parti hanno inteso collocarlo, al diverso piano del dover essere. Ciò vuol dire, in altri termini, che l’unione stabile di due persone maggiorenni in un legame affettivo di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale rimane pur sempre un fatto giuridicamente rilevante e non diviene certo il contenuto di un obbligo giuridico. Non si vede davvero perciò come, da questo punto di vista, le scelte del legislatore in materia di adozione possano ora essere messe in discussione sotto il profilo della ragionevolezza. Quanto poi alla recente riforma della filiazione, è fuori discussione che essa abbia fatto perdere al matrimonio l’attitudine a qualificare il rapporto di filiazione. A seguito della riforma non esistono più figli legittimi e figli naturali: il rapporto di filiazione si costituisce per il semplice fatto della generazione e sempre col medesimo contenuto, a prescindere dalle circostanze in cui questa si è prodotta. Né nel caso dell’adozione piena né nel caso dell’adozione semplice si tratta però di qualificare un rapporto di filiazione fondato sulla generazione: in un caso e nell’altro si tratta piuttosto di decidere sui presupposti di una extrema ratio di tutela dei minori a fronte di una situazione di grave e irreversibile incapacità dei genitori ad adempiere ai propri doveri. Beninteso, la valutazione discrezionale del legislatore in ordine ai requisiti soggettivi degli adottanti non può sottrarsi a un giudizio di ragionevolezza. Davvero non si vede però in che modo e per quale ragione un simile giudizio potrebbe mai essere parametrato al principio dell’unicità dello stato di figlio. È forse verosimile che, almeno nel caso dell’adozione piena, quel principio imponga al legislatore di attribuire all’adottato uno status identico a quello fondato sulla generazione. Ma la valutazione del legislatore in ordine ai requisiti soggettivi degli adottanti si pone comunque su tutt’altro piano. Estendere o meno la capacità di adottare anche alle coppie non coniugate non sembra infatti avere nulla a che vedere con la garanzia dell’identità del contenuto dello status filiationis.



14. L’adozione semplice da parte della persona singola e della coppia coniugata: la ragionevolezza della scelta del legislatore del 1983



Almeno a prima vista, infine, potrebbe effettivamente sembrare irragionevole consentire l’adozione semplice, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato e non consentirla invece alla coppia convivente nei tre casi di cui alle lettere a), c) e d) dell’articolo 44, laddove, in presenza di un definitivo difetto di accudimento genitoriale, o si tratta di dare rilevanza giuridica a un rapporto esclusivo di cura già consolidato con un parente entro il quarto grado o anche con un parente di grado ulteriore o con un estraneo, ma solo nel caso dell’orfano di padre e di madre, o si tratta di impedire il protrarsi di una situazione definitiva di abbandono che non è stato possibile sanare attraverso un’adozione piena. In realtà, a ben vedere, il vero termine di paragone ai fini del giudizio di ragionevolezza della norma che continua a escludere le coppie conviventi anche dall’adozione semplice non è la norma che la consente alla persona non coniugata, ma, ancora una volta, la norma che la consente alla coppia coniugata. Anche in questo caso, infatti, il legislatore mostra di aver voluto subordinare la costituzione di un rapporto artificiale con due figure genitoriali distinte all’esistenza di un contesto familiare la cui stabilità sia garantita ab externo mediante la forma giuridica dello status. Insomma, l’idea del legislatore è che, laddove la praticabilità di una soluzione del difetto di cura genitoriale interna alla cerchia affettiva del minore sia da anteporre al ricorso all’adozione piena ovvero laddove quest’ultima si sia rivelata in concreto impraticabile, la costituzione di un doppio rapporto genitoriale artificiale è preferibile alla costituzione di un rapporto singolo solo in presenza di due vite fuse insieme dal diritto e non anche di due vite semplicemente giustapposte. E da questo punto di vista non sembra davvero possibile ravvisare alcuna arbitraria diversificazione di fattispecie uguali. Certamente, almeno in questo caso, si tratta di una scelta che il legislatore può rimettere in discussione in ogni tempo. Non sembra però che si tratti di una scelta irragionevole.



15. L’esclusione dell’adozione dei minori abbandonati da parte della coppia unita civilmente: la ragionevolezza della scelta del legislatore del 2016



A questo punto ci si deve però ancora interrogare sulla ragionevolezza della scelta del legislatore della legge n. 76/2016 di non consentire anche alla coppia unita civilmente l’adozione piena e/o quella semplice dei minori abbandonati o che versino comunque in una situazione non altrimenti rimediabile di difetto di cura genitoriale. Si è già detto, del resto, che nel caso dell’adozione del minore abbandonato un approccio al problema in termini di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale appare meno problematico che rispetto alla più delicata questione dell’adozione del figlio del partner. In realtà, le considerazioni che pure si sono già svolte in ordine alla diversità di configurazione giuridica del rapporto coniugale e di quello che nasce dall’unione civile e in ordine all’accostamento di quest’ultimo rapporto al semplice rapporto di convivenza sotto il profilo della garanzia ab externo della sua stabilità sembrano sufficienti a render conto della scelta operata dal legislatore. Anche in questo caso, peraltro, non sembra comunque che si tratti di un’opzione costituzionalmente vincolata, almeno non del tutto. Il legislatore ordinario, cioè, ben potrebbe estendere anche alle coppie unite civilmente la possibilità di adottare un minore abbandonato nell’ipotesi di cui alla lettera d) dell’art. 44 o anche, con una scelta di maggiore apertura, nella forma dell’adozione piena, ma sempre che risulti impraticabile l’adozione da parte di una coppia coniugata. Stante l’art. 29 Cost., infatti, ad essere senz’altro impraticabile è solo l’idea di una concorrenza tra coppie coniugate e coppie unite civilmente nell’adozione di un minore abbandonato. In ogni caso sembra comunque indiscutibile che anche il legislatore del 2016, escludendo del tutto l’adozione da parte della coppia unita civilmente, non abbia operato alcuna diversificazione arbitraria di fattispecie. Anche in questo caso, insomma, il legislatore sembra aver legittimamente esercitato il proprio “diritto di essere diseguale”.



16. La problematica legittimità costituzionale di un matrimonio tra persone dello stesso sesso. La “struttura fondamentale” del matrimonio e la norma personalista



Il punto è che non sembra davvero che, nel rispetto della legalità costituzionale, l’unione civile possa essere configurata dal legislatore ordinario come un rapporto di status. Nella sentenza n. 138/2010, la Corte costituzionale, almeno secondo una lettura piuttosto accreditata, ha chiarito infatti che il giusto riconoscimento legislativo dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso non dovrebbe realizzarsi con la previsione di una disciplina identica a quella del matrimonio (contra Segni). E ciò perché l’art. 29 Cost. impone comunque al legislatore ordinario di rispettare la “struttura fondamentale” del matrimonio. E di rispettarla nei fatti, non semplicemente a parole, degradando altrimenti quella “garanzia di istituto” – com’è stato ben detto – a una grottesca “garanzia di etichetta” (cfr. Renda, Nicolussi). Ma la “struttura fondamentale” del matrimonio è tutta racchiusa nel suo essere promessa di fedeltà che l’uomo e la donna si scambiano auf Lebenszeit, e perciò nel suo essere un rapporto tendenzialmente stabile – di status appunto – di reciproca ed esclusiva dedizione affettiva tra due persone di sesso differente. Né, come si è già detto, si può pensare a uno status meno pieno o comunque dal contenuto differente rispetto allo status coniugale riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso, giacché la configurazione di un rapporto di coppia in termini di status ha senso solo se quel rapporto presenta il contenuto proprio dello status coniugale, se cioè è tale da investire in profondità la vita della persona, da dar luogo a quella “fusione di vita con vita” di cui parlava Capograssi. Al Differenzierungsgebot posto dal giudice delle leggi il legislatore ordinario non avrebbe allora potuto ottemperare altrimenti che con l’apprestare una possibilità di riconoscimento dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso in quella forma non istituzionale che ora sembra appunto emergere dalle disposizioni della prima parte della legge n. 76/2016. Rimane il problema più delicato: quello di capire perché la diversità di sesso dei coniugi faccia parte della “struttura fondamentale” del matrimonio. Un simile problema può forse essere impostato correttamente mettendo anzitutto in chiaro che l’esclusività della dedizione affettiva auf Lebenszeit, la fusione di vite che caratterizza il matrimonio incide così in profondità nella libertà del singolo, che, in un ordinamento fondato sulla norma personalista, la scelta di riconoscere un vincolo tanto grave – un vincolo assunto volontariamente, ma sottratto alla disponibilità dei suoi protagonisti – non può giustificarsi se non in funzione della stessa garanzia della dignità della persona. In altri termini, in un ordinamento fondato sulla Grundnorm della dignità della persona, l’idea che il matrimonio debba servire al mantenimento e alla crescita della comunità nazionale – als Grundlage… der Erhaltung und Vermehrung der Nation, come prevedeva l’art. 119 della Costituzione tedesca del 1919 – non sembra più davvero appagante. Ma se ciò è corretto si tratta allora di capire perché mai il matrimonio – e cioè un rapporto di coppia configurato giuridicamente in termini di status – possa servire ad affermare la dignità della persona quando ne sono protagonisti un uomo e una donna e perché invece il matrimonio tra due persone dello stesso sesso non possa servire a quel fine e anzi rispetto ad esso finisca per essere addirittura controproducente. Si tratta evidentemente di domande molto impegnative. Una risposta credibile potrebbe forse cominciare a prendere corpo proprio a partire dalla constatazione che, nelle coppie formate da persone dello stesso sesso, un rapporto di responsabilità genitoriale non è davvero possibile se non in una logica oggettuale di strumentalizzazione reciproca tra le sue parti, mentre il rapporto stabile dell’uomo e della donna determina un contesto di vita in comune alieno alle strumentalizzazioni. Ciò almeno in linea di principio, perché la realtà potrebbe anche essere molto diversa. In ogni caso l’interrogativo sulla “struttura fondamentale” del matrimonio e sulle ragioni profonde del suo modo di essere pone una sfida culturale senza precedenti: una sfida ormai non più eludibile da quanti abbiano davvero a cuore la norma personalista. È però evidente che si tratta di un compito del quale non può più farsi carico solo il giurista. Certo il matrimonio è una realtà intrinsecamente giuridica. E tuttavia, come ha scritto di recente un sociologo italiano, un sottosistema “non organizzato”, quale il matrimonio è divenuto in occidente soprattutto per l’impatto decisivo del cristianesimo, che l’ha trasformato in una “comunità tra pari”, “o può contare su favorevoli e forti accoppiamenti strutturali con il diritto, la politica (si pensi al favor familiae di alcune costituzioni), la religione, ecc., o è spacciato” (Diotallevi). Il vero problema è se, insieme al matrimonio, non rischiamo di dover dare per spacciata anche la norma personalista.