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Unioni civili tra persone dello stesso sesso: snodi principali e criticità della l. 76/2016

autore: G. Casaburi

Sommario: 1. Premessa. - 2. Cosa sono le Unioni civili? - 3. La matrimonializzazione delle UC. - 4. I profili di diversità tra matrimonio e UC, tra innovazione e discriminazione. - 5. La costituzione delle UC, tra omissioni legislative, decreto ponte, decreti delegati. - 6. La pretesa abrogazione del dovere di fedeltà. - 7. UC e filiazione. - 8. Lo scioglimento dell’unione civile. - 9. La conversione dei matrimoni omosessuali stranieri in UC



1. Premessa



La l. 20 maggio 2016, n. 76, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, costituisce la più importante riforma del diritto di famiglia italiano dalla introduzione del divorzio (1970) e dalla grande novellazione del 1975, questo anche sotto un profilo “psicologico”, perché – superando ostacoli secolari che sembravano insuperabili – introduce forme di tutela per le coppie omosessuali e per le coppie di conviventi non coniugati (o legati da unioni civili). Il mio esame è così limitato alle sole unioni civili (d’ora in avanti: UC), pur nella consapevolezza del carattere non meno innovativo della disciplina pure introdotta sulle convivenze (ormai quindi non più solo di mero fatto, nonostante il tenore stesso della legge), che presenta problemi giuridici forse anche più complessi. Inoltre, invece che un esame analitico delle molteplici disposizioni della nuova l. (commi 1-35 dell’immane articolo 1, o piuttosto unico), concentrerò l’attenzione su taluni snodi fondamentali della nuova disciplina, e delle principali criticità che essa pone.



2. Cosa sono le Unioni civili?



La domanda non è retorica. Il legislatore italiano, come detto, ha escluso l’estensione tout court del matrimonio alle coppie omosessuali; l’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali non era del resto imposta dalle carte sovranazionali (Cedu, Nizza, rilevanti ai sensi dell’art. 117 Cost.), e qui non interessa stabilire – sarebbe discorso ozioso – se una tale estensione sarebbe stata o meno conforme al dettato costituzionale. D’alto canto Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, Foro it., 2010, I, 1361 e 1701, nonché – ed in termini più stingenti – 11 giugno 14, n. 170, id., 2014, I, 2674 avevano affermato l’esigenza della introduzione di una disciplina giuridica delle stabili relazioni omosessuali – la cui tutela era ricondotta all’art. 2 Cost., non all’art. 29 – anche a mezzo dell’estensione di disposizioni relative al matrimonio. Decisiva è stata allora Corte eur. dei diritti dell’uomo 21 luglio 2015 in Foro it., 2016, IV, 1, secondo cui: “Il mancato riconoscimento, nell’ordinamento giuridico italiano, delle unioni civili costituite da persone dello stesso sesso vìola il diritto di queste ultime al rispetto della loro vita familiare e si pone in contrasto con l’art. 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. In estrema sintesi, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’art. 8 della convenzione è stato violato perché lo Stato italiano, sordo ad ogni pressione anche delle sue più alte istanze giurisdizionali e a quelle provenienti dalla stessa società civile, ha testardamente rifiutato qualunque tutela, se non sporadica ed episodica, ai legami omosessuali. Si tratta di una decisione di portata generale e sistematica, non certo limitata al caso (o piuttosto ai casi) esaminati dalla Corte. Né – in senso avverso alla osservanza di tale pronuncia – potevano richiamarsi superiori principi costituzionali (interni), in ultima istanza prevalenti rispetto agli stessi principi della Convenzione europea (cfr. Corte Cost. 26 marzo 15 n. 49, in Giur. cost., 2015, 391). D’altronde la spinta verso l’introduzione di una disciplina delle unioni civili veniva anche dalla giurisdizione ordinaria, cfr Cass. 6 giugno 13, n. 14239, in Corriere giur., 2013, 1519. La l. 76/16 ha pertanto finalmente istituito “l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, come enuncia, solennemente, il co. 1. Si tratta pertanto di un istituto riservato esclusivamente alle coppie di persone dello stesso sesso, in quanto quelle eterosessuali hanno la scelta tra matrimonio e convivenza (più o meno regolamentata). Il riferimento alle formazioni sociali, e quindi all’art. 2 Cost., coglie evidentemente uno spunto contenuto in Corte Cost. 138/2010 cit., § 8. Si tratta di un riferimento formalmente impeccabile, ma nel contempo fuorviante, se con esso si è inteso (al fine di non épater le bourgeois) negare la natura familiare delle UC. La nozione di “formazione sociale” è certo estremamente ampia, ma qui si riferisce esclusivamente e chiaramente a quelle formate “da due persone […] unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”, come recita – per le coppie di fatto, anche omosessuali – il co. 36. In altri termini sono proprio i legami affettivi a costituire il fondamento ed il collante comune tra coppie eterosessuali ed omosessuali, di fatto o stabilmente unite in matrimonio o in UC. Si tratta della prima volta in cui un testo di legge richiama l’affetto; si noti che ancora la l. 219/2012 di riforma della filiazione, nell’introdurre l’art. 315-bis, 1° comma c.c., sui diritti e doveri dei figli, fa riferimento al diritto dei figli all’assistenza morale dei genitori, essendosi preferita questa espressione, certo anodina, al richiamo espresso all’affetto dei genitori verso la prole. Non è quindi configurabile (o, piuttosto, è configurabile solo come abuso, non diversamente del resto dal matrimonio simulato, per non dire “d’interessi”) l’UC tra persone non legate da vincoli affettivi. Opinabile, certo, è il riferimento del co. 1 anche all’art. 3 Cost., disposizione fondamentale, cui devono conformarsi tutte le leggi della Repubblica). Quale che fosse l’intenzione del legislatore, a me pare che tale previsione (oltre che affermare la piena eguaglianza tra le parti dell’UC) valga come richiamo al canone di razionalità, nel che impone, agli interpreti, di superare ogni possibile ed ingiustificabile discriminazione tra UC e, soprattutto, matrimonio. Di contro si è tentato, da alcuni, in una ottica in genere marcatamente confessionale (la l. 76/16 sta facendo rivivere, anche tra gli studiosi, la contrapposizione tra guelfi e ghibellini) di limitare al massimo la portata innovatrice della l., quanto alla rilevanza giuridica delle UC nel loro complesso, in particolare escludendone alla nozione (invero intesa in senso sovente agiuridico) di famiglia. Così, al fine di marcare la pretesa natura solo privatistica dell’istituto, si pone l’accento sull’uso del plurale – unioni civili e non unione civile – nel titolo stesso della legge. Si tratta però in gran parte di sofismi; così è davvero vuota retorica osservare che mentre l’ordinamento “riconosce” il matrimonio, come realtà pregiuridica, ex art. 29 Cost., le UC sono “istituite” dalla legge; quest’ultima – quale che sia l’origine del matrimonio – permea di sé, e non potrebbe essere diversamente, anche la disciplina di quest’ultimo). Le UC sono invece – direi già sotto il profilo naturalistico – una formazione sociale di tipo familiare, genus cui sono riconducibili tutte le altre famiglie, comprese quelle matrimoniali: Si ricordi, in una prospettiva storica, che anche le coppie di fatto eterosessuali, fino ad epoche relativamente recenti, erano stigmatizzate come composte da “concubini”, e quindi non erano considerate famiglia. In altri termini matrimonio e UC sono species del comune genus rappresentato dalla famiglia (o, piuttosto, dal riconoscimento di una pluralità di modelli familiari). D’altro canto la riconduzione delle unioni tra coppie dello stesso sesso alla famiglia costituisce un dato ormai sottratto alla discrezionalità del legislatore nazionale, in quanto a tali unioni compete la protezione dell’art. 8 della Cedu (cfr. Corte eur. 21 luglio 2015 cit.); in tal senso (proprio in osservanza della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di quella costituzionale interna) la fondamentale Cass. 15 marzo 2012, n. 4184, Foro it., 2012, I, 2727 ha ribadito che i componenti della coppia omosessuale sono titolari del diritto alla vita familiare. Ne segue anche che quella in esame è una legge costituzionalmente necessaria, anche in ragione della rilevanza, anche sovranazionale, quanto alle UC, degli istituti disciplinati; ne segue che non è suscettibile di abrogazione, almeno nel suo nucleo essenziale, a mezzo di referendum popolare (arg., ex plurimis, da Corte cost. 28 gennaio 2005, n. 45, id., 5, I, 629).



3. La matrimonializzazione delle UC



Vi è un dato quasi paradossale da segnalare: il nuovo istituto ha suscitato e suscita critiche radicali da chi – muovendo evidentemente da posizioni ideologiche e culturali opposte – lo reputa troppo vicino o, al contrario, troppo lontano dal modello matrimoniale. Corte eur. 21 luglio 2105 cit., certo, non indica il contenuto minimo di tutela che lo Stato italiano è obbligato ad accordare alle coppie omosessuali legate da UC: ma è evidente che non può trattarsi di una tutela apparente, o irrisoria; di contro, deve riguardare (complessivamente) tutti i diritti ed i doveri connessi alla vita di coppia, nonché quelli che alla coppia, in quanto tale, competono dalle istituzioni (ad es. in ambito previdenziale). Cfr. anche Corte eur. diritti dell’Uomo 16 7 14, in Nuova gir. Civ. comm., 2014, I, 1139, che, in una fattispecie di mutamento di sesso di uno dei coniugi, ha escluso che la legge finlandese violi gli artt. 8, 12, 14 della Convenzione, prevedendo la conversione del matrimonio in unione registrata, sempre però che questa soluzione offra una protezione giuridica praticamente identica a quella del matrimonio; come si vedrà si tratta di opzione offerta anche dalla l. italiana. Una eccessiva distanza tra matrimonio ed UC può d’altronde comportare un ulteriore effetto perverso, solo in apparenza paradossale, rendere queste ultime appetibili anche alle coppie eterosessuali, che potrebbero voler accedere ad una disciplina intermedia tra la tutela massima del matrimonio e quella minima delle convivenze di fatto. Vi è poi un ulteriore fattore da considerare, cui però in questa sede posso solo accennare: è lo stesso matrimonio, quale istituto di diritto positivo, ad essere divenuto – in forza di una evoluzione pluridecennale – un istituto ampiamente neutro (una sorta di contenitore vuoto). Il nucleo essenziale dell’istituto è dato da un dovere di solidarietà ed assistenza reciproca, tutt’altro che incondizionata. Si tratta di profili, tutti, non incompatibili con i legami di coppia omosessuale, e quindi con la disciplina delle UC. Né, ai fini della incompatibilità tra matrimonio e UC può invocarsi la potenziale finalità procreativa propria solo del primo: la recente riforma della filiazione (l. 219/2012 e d.lgs. 154/2013) ha fatto venire meno lo storico legame tra matrimonio e filiazione legittima, essendo poi unico lo status di figlio, art. 315 c.c. La l. 76/16 ha optato per una soluzione, inevitabilmente, di compromesso. Si tratta però di un compromesso fortemente orientato sul versante della equiparazione tra matrimonio e UC, equiparazione che – specie in ambito economico, è pressoché totale. Ma non basta: il regime degli impedimenti e delle nullità, con differenze tutto sommato marginali, è pressoché il medesimo. Tanto non deve meravigliare: il legislatore disponeva, come riferimento, di una sola disciplina organica di uno stabile e ufficializzato legame di coppia, quella del matrimonio, fino a quel momento l’unica forma di famiglia disciplinata dalla legge. L’organicità stessa delle disposizioni sulle UC costituisce la migliore smentita della configurazione dottrinale “atomistica”, di chiara matrice clericale, che ridimensiona l’UC a mero compendio dei diritti dei componenti della coppia omosessuale, così negandone la (invece fondamentale) dimensione di coppia. Né – come pure sostenuto – l’UC ha carattere eminentemente negoziale, in quanto espressione di una volontà negoziale solo “registrata”: se così fosse, d’altronde, non si spiegherebbe neppure la necessità, per farla cessare della instaurazione di un procedimento giudiziale, con le eccezioni di cui si dirà (al di fuori della fattispecie fisiologica della morte, il ch pure l’avvicina al matrimonio). Neanche è esatta l’affermazione che la nuova disciplina produce i suoi effetti solo limitatamente alle parti delle UC, non determinando (a differenza del matrimonio) la formazione del legame di affinità tra ciascuna di esse ed i parenti dell’altra. I vincoli di affinità infatti, nonostante il mancato rinvio all’art. 78 c.c., sono richiamati dall’art. 87 c.c. (con riferimento agli impedimenti), che è invece applicabile alle UC in forza dell’espresso rinvio contenuto nel co. 4, lett c) l. cit). Di grandissima portata sistematica è poi la disposizione “di chiusura” contenuta nel co. 20 l. cit.; “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge”. Cfr. infra per quanto concerne l’adozione. Si tratta della clausola di equivalenza (ma che può definirsi anche di salvaguardia) non solo terminologica, che – svolgendo una funzione palesemente interpretativa e antidiscriminatoria – assicura, almeno tendenzialmente, l’equiparazione nei più svariati ambiti tra matrimonio e UC. Saranno infatti applicabili a quest’ultima le disposizioni (non solo di rango legislativo), relative ai coniugi, in materia di agevolazioni tributarie, o edilizie, in materia di immigrazione, nonché quelle previdenziali, anche quanto alle pensioni di reversibilità. L’equiparazione così attuata non è significativamente incisa neppure dalla singolare delle norme del codice civile non richiamate non potrebbe escludersene, ove necessario, l’applicazione analogica. Infatti è anomala (ma, certo, spiegabile in termini politici) proprio siffatta esclusione: si tratta allora di una disposizione derogatoria di carattere eccezionale, essa sì di stretta interpretazione. Quanto poi all’inciso iniziale della disposizione (introdotto nella convulsa fase finale di approvazione della l.), ritengo– quale che fosse l’intenzione dell’incauto legislatore – che esso non attenua, in alcun modo, la portata radicale della clausola di equivalenza. Nel diritto – non solo in quello civile – il riferimento all’esercizio dei diritti, e all’adempimento dei doveri, è assorbente, e non limitativo: in altri termini quelle ora introdotte sono mere sintesi verbali, in quanto non vi è nulla di giuridicamente rilevante oltre i diritti ed i doveri (inutilmente) richiamati in termini tanto generali (e, nelle intenzioni, limitativi). In definitiva tra le parti si instaura un vincolo ampiamente corrispondente a quello di coniugio (i due sono anche reciprocamente successibili legittimari e legittimi), un vero e proprio status personale.



4. I profili di diversità tra matrimonio e UC, tra innovazione e discriminazione



Tale tendenziale equiparazione tra matrimonio e UC ha però destato, prima dell’approvazione della l., e tuttora desta, le critiche, talora veementi, di chi reputa che, in tal modo sarebbe stato violato l’art. 29 Cost. L’argomento è complesso ma, a mio avviso, fallace. Al di là delle ambiguità di Corte Cost. 138/2010 cit., già Corte Cost. 170/2014, richiama l’esigenza dell’introduzione di una “convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima”; in termini Cass. civ. 21 aprile 2015, n. 8097, Foro it., 2015, I, 2385 (relativa alla stessa, singolare vicenda di rettifica di sesso di cui a Corte Cost. 170/2014 cit.); Cass. 9 febbraio 2015, n. 2400, id., 2016, I, 296, pur negando alle coppie omosessuali il diritto alle pubblicazioni matrimoniali, invoca per tali coppie l’introduzione di “uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni”. Si è poi già detto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, attenta nel censurare ogni diversità di regime che sia discriminatoria. Soprattutto la circostanza che il matrimonio si fondi sull’art. 29 Cost., e le UC sull’art. 2, nulla toglie alla richiamata omogeneità “ontologica” dei legami di coppia di riferimento (fondati su uno stabile legame affettivo), e non preclude affatto al legislatore di estendere, alle seconde, in misura anche ampia, la disciplina del primo. Né mi sembra poi concretamente possibile che la Consulta possa ridimensionare la portata delle UC, perché “troppo” matrimoniale: a parte ogni ulteriore considerazione giuridica, vi è il dato fattuale (ma di grandissimo rilievo operativo) che non rientra “nel dna” della Consulta negare o ridimensionare diritti attribuiti dal legislatore ordinario, e che non ledono – al di là delle contrapposizioni ideologiche – i diritti di altri. D’altro canto, come accennato, la nuova disciplina è pur sempre compromissoria: l’equiparazione tra matrimonio e UC non è stata affatto piena, in quanto restano differenze anche di rilievo. Né queste, in una prospettiva opposta a quella sopra richiamata (ma ad essa complementare) sono di per sé incostituzionali (i due istituti, altrimenti, dovrebbero distinguersi solo per il nomen iuris nell’ottica, a sua volta ambigua, del “separati, ma uguali”). Il principio di eguaglianza, su cui tornerò, si ricordi, non si traduce in un semplicistico “a tutti lo stesso”, ma equivale al “a ciascuno il suo”. Deve però anche segnalarsi che le differenze di regime tra matrimonio e UC sono, in buona parte, nominali, dettate dall’esigenza, politica più che politica, di mascherare la sostanziale omogeneità degli istituti, specie con riferimento a disposizioni di valore “simbolico” (ad es. in materia di diritti e doveri delle parti, come di costituzione dell’UC). Da qui anche una deprecabile tecnica legislativa, che rende il testo poco leggibile (e, temo, difficilmente interpretabile ed applicabile), fatta di meri rinvii alla disciplina matrimoniale, alternata però – senza una ratio giustificatrice comprensibile – alla riproduzione, con varianti più o meno significative, delle disposizioni civilistiche. Si consideri, ad es., alla nullità dell’UC per vizio del consenso; il co. 7 ricalca, confusamente, l’art. 122 c.c.; in particolare, la fattispecie sub a), riproduce – quanto all’errore essenziale sulle qualità personali – la fattispecie di cui all’art 122, co. 3, con esclusione però del riferimento quale fonte di errore essenziale – all’esistenza di una deviazione sessuale; tanto, è da temersi, sul presupposto – privo ormai di ogni dignità non solo scientifica – della riconduzione dell’omosessualità a siffatte deviazioni. Per altri profili, invece, il regime specifico delle UC appare non solo più elastico, ma anche più moderno di quello matrimoniale. Si pensi: alla limitazione dell’istituto ai soli maggiorenni, co. 2 (mentre è ancora consentito – ma si tratta di un retaggio di altri tempi – il matrimonio degli ultrasedicenni); all’egualitario sistema di attribuzione del cognome di famiglia, co. 10, sicuramente preferibile a quello, patriarcale (e di fatto desueto), ancora previsto per il matrimonio (art. 143 c.c.); alla disciplina semplificata di scioglimento della UC, senza separazione legale. La disciplina delle UC si pone qui come possibile modello per una incisiva novellazione di quella matrimoniale. In altri punti, invece, le differenze di regime possono mascherare discriminazioni (es., il regime di costituzione e la mancata previsione, per le UC, dell’obbligo di fedeltà; vi è poi la questione della filiazione). Il riferimento allora non può che essere all’art. 3 Cost., come detto richiamato dallo stesso co. 1 l., inteso quale canone di razionalità (o almeno di non arbitrarietà): esso colpisce le differenze di regime che siano anche ingiustificate, discriminatorie (imponendo, in primo luogo, interpretazioni costituzionalmente orientate, volte a superare tali discriminazioni). In particolare, alla stregua della giurisprudenza della Consulta, sono incostituzionali quelle disposizioni, positive o omissive, che si risolvono in un “irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco”, specie allorché si realizzano discriminazioni (o disparità di trattamento) a fronte di fattispecie almeno omogenee, cfr la fondamentale Corte Cost. 10 giugno 2014, n. 162, Foro it., 2014, I, 2324.



5. La costituzione delle UC, tra omissioni legislative, decreto ponte, decreti delegati



La principale differenza di disciplina (filiazione a parte) tra matrimonio ed UC sta nella stessa formazione del vincolo. Qui il legislatore ha manifestato pienamente i condizionamenti cui è stato sottoposto: il risultato finale è un testo monco ed inadeguato, che sta già ponendo rilevanti problemi applicativi. Il co. 2 si limita ad enunciare che l’unione civile è costituita mediante dichiarazione resa da due persone dello stesso sesso di fronte all’ufficiale dello stato civile, ed alla presenza di due testimoni; è anche evitata, accuratamente, l’uso del verbo celebrare e del sostantivo corrispondente. La disciplina del matrimonio, di contro, è ben più organica (sono disciplinate la promessa di matrimonio, art. 79-81 c.c.; le pubblicazioni, art. 93-100 c.c., istituto invero desueto, le opposizioni, art. 102-104 c.c., e, soprattutto, la celebrazione stessa, art. 106-113 c.c., caratterizzata, quest’ultima, da forma pubblica e solenne). La disciplina legislativa è completata dalle disposizioni contenute nell’ordinamento di stato civile, d.p.r. 396/2000, e dal formulario per la redazione degli atti di stato civile, predisposto dal ministero dell’interno. Il matrimonio manifesta, nella sua fase costitutiva, tutta la sua natura simbolica, anche di rito di passaggio, nel senso antropologico del termine. Si comprende allora che il legislatore non ha esteso alle UC una disciplina di valore simbolico tanto rilevante.

Nondimeno si è trattato di un grave errore, sia operativo che di sistema. Si è detto che dalla costituzione dell’UC discende la formazione di un nuovo status personale, per molti versi assimilabile a quello coniugale dai rilevantissimi effetti giuridici (altro che mera registrazione, pressoché solo anagrafica, di dichiarazioni concordanti!); e in realtà anche nella fase genetica del vincolo, non vi è una sostanziale frattura tra i due istituti. Infatti le nuove succinte disposizioni conservano gli elementi essenziali propri della celebrazione del matrimonio: le dichiarazioni rese dalle parti personalmente e contestualmente innanzi all’ufficiale di stato civile (lo stesso che celebra il matrimonio civile), cui segue la formazione dell’atto. Una volta rese le dichiarazioni, e raccolte nel relativo atto, si costituisce appunto il surrichiamato status (cfr., al riguardo, il co. 8 l., sulla facoltà di ciascuna parte dell’UC di impugnare in qualunque tempo matrimonio o UC dell’altra, cui corrisponde il novellato – dal co. 33 – art. 124 c.c.). Di tanto vi è ormai riscontro nel c.d. decreto ponte, il decreto del presidente del consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144, regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, previsto dall’art. 1, co. 24, l. 76/2016; tale decreto, entrato in vigore il giorno successivo, ha consentito e consente concretamente la costituzione delle unioni civili. Tale decreto anticipa l’attuazione della delega conferita al governo dall’art. 1, co. 28-30) l. quanto alla emanazione di decreti legislativi in materia di UC, anche quanto – lett a) co. 28 cit. – all’adeguamento delle “disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni”. La durata della delega è fissata in sei mesi dall’entrata in vigore della l., prorogata però di ulteriori tre mesi in forza del co. 30, terzo periodo della l., sicché deve ritenersi che scadrà il prossimo 5 marzo 2017. La questione è di rilievo, perché il Consiglio di Stato, nel parere del 15 luglio 2016 sul decreto ponte, ha affermato (forse imprudentemente) che l’efficacia di questo scadrà con la scadenza della delega legislativa; ne seguirebbe però – ove i decreti delegati non dovessero essere emanati tempestivamente – la gravissima conseguenza dell’impossibilità di costituzione delle UC (salvo a ritenere comunque vigente il decreto ponte, o applicabili per analogia le disposizioni del codice civile). In ogni caso i decreti legislativi in oggetto sono stati già predisposti (e così le cd. formule del ministero dell’interno), e ne è in corso la procedura di approvazione; quello sull’ordinamento di stato civile, sostanzialmente, sviluppa disposizioni già contenute nel decr. ponte, introducendo – tra l’altro – il titolo VIII bis, Della richiesta e costituzione dell’unione civile, del d.p.r. 396/2000, l’ordinamento di stato civile. In estrema sintesi, il decreto ponte disciplina la costituzione delle UC tenendo presente quella matrimoniale, ma con notevoli semplificazione. È così prevista, la richiesta delle parti all’ufficiale di stato civile di un comune di loro scelta (tale libertà di scelta, in mancanza di qualsiasi criterio di collegamento, è un unicum del tutto inopportuno); l’ufficiale di stato civile (art. 2, co. 1 e 2 d. ponte) è investito dal compimento (doveroso) di indagini ufficiose, entro 15 gg dalla presentazione della richiesta, circa l’esattezza delle dichiarazioni delle parti, e la mancanza di impedimenti, con facoltà di richiede re alle parti la rettifica di dichiarazioni erronee e incomplete nonché l’esibizione di documenti. Qualora riscontri l’esistenza di impedimenti (ma anche l’inesistenza dei presupposti, espressione poco chiara), prevede ancora l’art. 2, co. 2, l’ufficiale di stato civile né dà immediata comunicazione a ciascuna parte. Deve ritenersi, pur nel silenzio della norma, che tale comunicazione equivalga al rifiuto della costituzione (cfr. art. 112, co. 1 c.c.). È così colmata una delle principali lacune della legge. Quanto alla fase finale di costituzione dell’UC, l’art. 3, 1° comma, si limita a prevedere che le parti, nel giorno previsto (e da loro scelto ed indicato), “rendono personalmente e congiuntamente alla presenza di due testimoni, avanti all’ufficiale di stato civile del comune ove è stata presentata la richiesta la dichiarazione di voler costituire un’UC”; subito dopo l’ufficiale redige apposito processo verbale, sottoscritto dalle parti e dai testimoni. Non vi è quindi la dichiarazione finale dell’ufficiale di stato civile, che integra sicuramente una fase necessaria della celebrazione del matrimonio (e qui non interessa stabilire se ha carattere costitutivo o solo dichiarativo: la dottrina è tuttora divisa); peraltro l’art. 3 co. 2 cit., prevede che l’ufficiale di stato civile fa menzione del contenuto dell’art. 1, co. 11 e 12 l. 76/16, le disposizioni sui diritti ed i doveri delle parti, il che fa ritenere (la formula normativa è certo farraginosa) che ne dà lettura. Il riferimento è evidentemente all’art. 107 c.c. L’UC deve comunque intendersi costituita con lo scambio solenne delle dichiarazioni di volontà, atti negoziali, in senso ampio, e recettizi. Qui – paradossalmente – il modello è addirittura quello canonico (in cui il matrimonio è perfezionato dallo scambio delle dichiarazione dei nubendi, svolgendo il celebrante un ruolo di assistenza; si pensi al matrimonio a sorpresa, fallito, di Renzo e Lucia), cfr al riguardo i can. 1104, § 1 e 2; 1108; 1120 Cod. dir. can. Né la l. 76/16, né il decr. ponte, contengono una disposizione equivalente all’art. 108 c.c., circa l’inapplicabilità di condizioni o termini alle dichiarazioni degli unendi; tale inapplicabilità sussista anche per le UC. Se così non fosse, invero, ne sarebbe stravolta la stessa configurazione dell’istituto, nella sua fase genetica e funzionale, introducendo profili di temporaneità e di disponibilità del tutto estranei alla ratio della disciplina configurata dalla l. 76/16 (che, non diversamente dal matrimonio, si scioglie fisiologicamente con la morte di una delle parti e sottende l’inderogabilità delle disposizioni sia relative alla costituzione, sia – salvo che non sia diversamente disposto – di quella dei diritti e dei doveri che dalla UC discendono). Si noti del resto che il divieto di condizioni e termini è previsto per i contratti di convivenza dal co. 56. D’altronde il decr. ponte prevede, come uniche dichiarazioni che le parti possono rendere nella fase costitutiva, quella relativa alla scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni, conformemente all’art. 162, co. 2 c.c. (art. 3, co. 4) e quella relativa al cognome comune (art. 4). In ogni caso, a mio avviso – a fronte della sostanziale omogeneità di matrimonio e UC. – le disposizioni dettate per la costituzione del primo, almeno quelle fondamentali, possono valere come criterio interpretativo integrativo, ma anche come parametro di legittimità, delle norme secondarie (decr. ponte) e di quelle dei decreti legislativi delegati in materia. Tanto alla stregua di una applicazione analogica, non preclusa dal co. 20 l. Soprattutto, anche con riferimento alla fase della costituzione, deve affermarsi l’illegittimità di ogni discriminazione tra UC e matrimonio. Cfr. al riguardo la recente Tar Veneto, ord. 7 dicembre 2016, n. 640/16 (www.articolo.29.it) che ha sospeso – appunto in quanto ha riscontrato il fumus boni iuris del proposito discriminatorio – il provvedimento del Comune di Padova che rendeva inapplicabili alle UC le disposizioni (su luoghi, tariffe, orari) relative al matrimonio civile, rendendole poi possibili solo nei gg feriali. Va in ultimo segnalato che – nella prassi applicativa – qualche Sindaco ha rifiutato la celebrazione dell’UC, invocando l’obiezione di coscienza. Una siffatta obiezione di coscienza è però inconfigurabile, e d’altronde neppure è prevista dalla legge; in tal senso già il Parere del Consiglio di Stato del 15 luglio 2016 cit. D’altro canto il compito dell’ufficiale di stato civile si sostanzia nel raccogliere il consenso liberamente e pubblicamente espresso da ciascuno dei nubendi pertanto risulta a tal fine irrilevante il carattere omosessuale o eterosessuale del matrimonio; egli è un funzionario pubblico che agisce per conto dello stato per l’adempimento di una missione di servizio pubblico, alla stregua del principio di neutralità che gli preclude di astenersi, per ragioni filosofiche o religiose, dal compiere un atto che gli viene richiesto dalla legge. Il pubblico ufficiale, in particolare l’ufficiale di stato civile, non può in altri termini sottrarsi dall’adempimento del suo dovere, solo perché non condivide (sia pure per motivi di coscienza) la legge che è chiamato ad applicare: se così fosse, d’altronde, i sindaci cattolici potrebbero rifiutare di celebrare i matrimoni civili solo perché, secondo la loro fede, il vero matrimonio è solo quello religioso. Né indicazioni in senso diverso vengono dalla pur ampia giurisprudenza, in primo luogo costituzionale, in materia. Ne segue che un eventuale rifiuto di celebrazione dell’UC sarebbe ostruzionistico e illegittimo (anche in una prospettiva costituzionalmente orientata), esponendo l’ufficiale di stato civile a responsabilità penale (art. 328 c.p., Rifiuto di atti di ufficio, omissione) e anche civile, quando ne siano derivati per le parti dei danni (anche di ordine morale). I Comuni, in ogni caso, dovranno sempre assicurare alle parti richiedenti la tempestiva celebrazione delle UC, e il rilascio della relativa documentazione (come del resto lo stesso art. 9. l. 194/1978 prevede con riferimento all’aborto).



6. La pretesa abrogazione del dovere di fedeltà



La l. non definisce l’UC, come del resto non definisce il matrimonio, ma disciplina gli effetti giuridici dell’uno come dell’altro istituto, in primo luogo indicandone i diritti ed i doveri che ne conseguono. Per il matrimonio i diritti ed i doveri che ne derivano sono disciplinati dai fondamentali (e fortemente simbolici) artt. 143-148 c.c. L’originario disegno di legge, poi sfociato nella l. 76/16, estendeva pressoché integralmente tali disposizioni al nuovo istituto; da qui però forti polemiche, sicché il testo definitivo – in una sorta di corsa “al ribasso” – ha introdotto una specifica ed analitica disciplina dei diritti e dei doveri che discendono dall’UC, cfr. i commi 11 e 12.

A mio avviso, comunque, e nonostante modifiche ed omissioni lessicali, il legislatore non ha raggiunto l’obiettivo (ammesso che se lo era posto) di differenziare in termini sostanziali, in punto di diritti e doveri, UC e matrimonio. L’impronta paramatrimoniale resta fortissima; in sintesi estrema, UC e matrimonio impegnano parimenti, reciprocamente ed inderogabilmente i contraenti alla collaborazione, alla solidarietà, all’accordo sulle scelte di maggior rilievo, pur attuabili autonomamente da ciascun di essi. Il co. 11 l. omette però il richiamo al dovere di fedeltà, invece posto per il matrimonio dall’art. 143, co. 2 c.c. Su un versante cattolico-conservatore tale omissione è stata vista con soddisfazione e giustificata, sotto il profilo tecnicogiuridico, sul rilievo che il dovere di fedeltà è legato alla presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c., che non opera per le UC. In diversa e più laica prospettiva, si è osservato che anche nel matrimonio l’apparato sanzionatorio del dovere di fedeltà si è affievolito: nell’UC è venuto meno del tutto, il che comporta che le relazioni sessuali tra le parti escono dal controllo del diritto, rientrando per intero nella sfera privata. A me sembra invece che l’omissione in parola, se davvero sussistente, sia giuridicamente ingiustificata, e incoerente con la struttura dell’UC quale delineata dal legislatore. A ben vedere, però, un’attenta lettura delle nuove disposizioni potrebbe condurre a un risultato inatteso. Infatti il dovere di fedeltà nel matrimonio (il primo nell’elencazione dell’art. 143 cpv c.c.) opera allo stesso modo per il marito e per la moglie, coerentemente con il principio di perfetta eguaglianza tra i coniugi, sotteso alla novella del 1975. La giurisprudenza, in materia di addebito, ha anche tracciato il contenuto del dovere di fedeltà, che non può essere intesa solo come fedeltà sessuale, l’antico ius in corpus (l’adulterio rilevante ai fin dell’addebito, del resto, non è integrato da sporadiche trasgressioni, né si identifica tout court nei rapporti sessuali con persona diversa dal partner). Essa, piuttosto, va intesa in un senso più ampio, come impegno globale di devozione, comprensivo anche (ma non solo) della fedeltà sessuale. La fedeltà, in altri termini, è essenzialmente lealtà reciproca, finendo per confinare (ed anzi, a esserne ricompreso come species) con il dovere di assistenza morale, che è appunto dovere di sostegno reciproco in ambito affettivo, psicologico, spirituale e, ancora più generalmente, dovere di mutua solidarietà: è qui il contenuto più profondo del matrimonio. Si tratta di doveri, nel loro nucleo essenziale, non solo inderogabili, ma anche inseparabili, nel senso che non è configurabile la soppressione di uno di essi, singolarmente considerato, senza che venga alterato il sistema matrimoniale nel suo complesso. Il dovere di fedeltà, in definitiva, lungi dall’essere un oscuro retaggio di altre epoche storiche, costituisce tuttora un dovere inderogabile connaturato all’essenza stessa del matrimonio, in quanto stabile, esclusivo legame affettivo di coppia, che verrebbe travolta dalla legittimazione del tradimento. Ma è tale anche l’UC, quale stabile ed anzi “formalizzata” vita di coppia, per la quale, quindi, il dovere di fedeltà deve necessariamente operare: ed infatti il co. 11 l. richiama espressamente il dovere di assistenza morale (cui, come detto, quello di fedeltà è riconducibile); d’altronde le parti dell’UC sono tenute alla convivenza, ed hanno il dovere di concordare tra loro l’indirizzo della vita familiare (esattamente come nel matrimonio). Certo, la violazione del dovere di fedeltà è sanzionato con la pronuncia dell’addebito della separazione, ai sensi dell’art. 151 cpv c.c., sempre che l’adulterio si ponga come causa efficiente della intollerabilità della convivenza; nelle UC invece, come si dirà infra, la separazione non è prevista. Tuttavia la violazione del dovere di fedeltà può emergere, con riferimento alle UC in almeno due fattispecie:

– può dare luogo a responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2059 c.c., il cd. illecito endofamiliare;

– può incidere sulla quantificazione dell’assegno divorzile, in quanto l’art. 5, co. 6 l. div. richiama le ragioni della decisione”, elemento ambiguo, che dovrebbe concernere l’accertamento della responsabilità esclusiva o prevalente di uno dei coniugi quanto alla cessazione del vincolo. L’esclusione del dovere di fedeltà dalle UC si risolverebbe, almeno con riferimento a tali fattispecie, in un’ingiustificabile disparità di trattamento (sotto il profilo del richiamato canone di ragionevolezza) rispetto al matrimonio, sicché il giudice, ove non intendesse procedere alla interpretazione “costituzionalmente orientata” sopra prospettata, non avrebbe altra strada che quella di adire la Consulta con riferimento agli artt. 2, 3, 24 Cost. (nonché, per il tramite dell’art. 117 Cost. all’art. 8 Cedu).



7. UC e filiazione



Il co. 20 cit. esclude dall’applicazione della cd. clausola di equivalenza, oltre alle disposizioni del codice civile non espressamente richiamate, anche quelle della l. 184/83 sulle adozioni, il testo originario del disegno di legge, non trasfuso in quello approvato, novellando l’art. l’art. 44, 1° comma, lett. b), l. 184/1983 adozioni., consentiva a ciascun componente dell’UC l’adozione (cd. speciale) del figlio (anche adottivo) dell’altro. Alla base della mancata inclusione di tale disposizione ha agito forse il timore che, attraverso l’adozione speciale, si desse spazio a forme di riconoscimento (indiretto) di maternità surrogata (cui, nella realtà, fanno ricorso soprattutto coppie eterosessuali). Tale omissione potrebbe avere anche pesanti ricadute innanzi alla corte di Strasburgo, cfr. Corte eur. diritti dell’uomo 19 2 13, X c. Governo Austria, in Nuova giur. civ., 2013, I, 519 (secondo cui, ove uno Stato contraente contempli l’istituto dell’adozione del figlio del partner a favore delle coppie conviventi di sesso opposto, il principio di non discriminazione fondata sull’orientamento sessuale impone la sua estensione alle coppie formate da persone dello stesso sesso). La legge, tuttavia, contiene una (pur anomala ed ambigua) apertura o meglio una “non chiusura”; infatti il 20° comma, cit., subito dopo il divieto di applicazione della legge sulle adozioni alle coppie unite in UC, continua (e termina) con una singolare previsione: “Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. In realtà la l. 184/83, ovviamente, nulla prevede e nulla consente, con riferimento alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso; la nuova previsione opera come una sorta di (superflua) clausola di salvezza, volta a consentire, o meglio a non impedire, il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale manifestatosi da qualche anno, almeno inizialmente presso gli uffici giudiziari minorili romani, che appunto ha aperto alle coppie omosessuali l’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, 1° comma, lett. d), l. 184/83 (che non presuppone il rapporto di coniugio tra genitore biologico ed adottante). Il legislatore, quindi – ipocritamente, e attraverso una gravissima dismissione della sua funzione – non prevede (più) l’adozione speciale del figlio del partner, nell’ambito di una coppia omosessuale (anche non vincolata da unione civile), sul presupposto che questa è comunque ammessa da parte della giurisprudenza. Il riferimento è – ormai – a Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, Foro it., 2016, I, 2342, che ha confermato un indirizzo espresso dal tribunale per i minorenni di Roma (ma anche dalla Corte di appello di Torino); in sostanza la S.C. ha confermato che la fattispecie di adozione speciale surrichiamata presuppone non una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità di affidamento preadottivo, di fatto o di diritto. Atteso poi che non costituisce ostacolo, di per sé, la condizione omosessuale dell’adottante (una tale valutazione negativa, fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale del genitore biologico e di quello adottante, sarebbe discriminatoria), può farsi luogo a siffatta forma di adozione nei riguardi di una minore, da parte della partner stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito (Trib. minorenni Roma 23 dicembre 2015, www.articolo29.it, ha comunque consentito anche l’adozione speciale in oggetto all’interno di una coppia maschile; il bambino era nato da pratiche si surrogazione di maternità all’estero). Quel che rileva, ai fini della pronuncia adottiva, è l’accertamento, in concreto, dell’interesse del minore al riconoscimento di una relazione affettiva già instaurata e consolidata con chi se ne prende stabilmente cura. In una sorta di eterogenesi dei fini, quindi, la giurisprudenza ha aperto l’adozione alle coppie omosessuali – anche non unite in unione civile – in misura più ampia rispetto al testo del d.d.l. non recepito dal Parlamento. La giurisprudenza non è però ancora consolidata; così di recente Trib. min. Milano 17 ottobre 2016, di prossima pubbl. in Foro it. ha ribadito che l’adozione speciale in oggetto presuppone comunque lo stato di abbandono del minore, prendendo espressamente le distanze da Cass. 12962/16 cit. La giurisprudenza di merito si è anche schierata in favore del riconoscimento dell’efficacia in Italia delle sentenze e dei provvedimenti stranieri di adozione piena di minori, nell’ambito di coppie omosessuali, escludendone il contrasto con l’ordine pubblico, sempre che, in concreto, ciò corrisponda al superiore interesse del minore, cfr. App. Milano 10 dicembre 2015, Foro it., 2016, I, 338, nonché App. Napoli 5 aprile 2016, id., 2016, I, 1910, che in particolare ha valorizzato il principio della “libera portabilità degli status” nell’ambito dell’Unione europea, che ne comporta anche la conservazione in tutta l’Unione. Addirittura oltre tale orientamento si è posta Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, id., 2016, I, 3329, che (confermando App. Torino 4 dicembre 2015, id., 2016, I, 1078), ha confermato la liceità della trascrizione nei registri di stato civile, perché non contrario all’ordine pubblico, dell’atto di nascita formato all’estero (nella specie, in Spagna) di un bambino che viene indicato come figlio di due donne (nella specie, una cittadina spagnola e l’altra italiana: il bambino era nato a mezzo di procreazione assistita eterologa, da una delle due, con gameti donati dall’altra, tanto nell’ambito di un progetto genitoriale realizzato dalla coppia, ivi coniugata). La S.C. muove dal presupposto che la contrarietà all’ordine pubblico si riscontra solo allorché il diritto straniero di riferimento sia incompatibile con la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Costituzione, dai trattati fondativi e dalla carta dei diritti fondamentali dell’UE, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; nella specie non osta all’ordine pubblico così inteso: 1) la circostanza che la tecnica riproduttiva utilizzata – comunque non rapportabile alla maternità surrogata – non sia riconosciuta dall’ordinamento italiano; 2) il contrasto con la disposizione di cui all’art. 269, 3° comma c.c., secondo cui è madre solo colei che ha partorito, trattandosi oltretutto di disposizione sulla prova della filiazione; 3) l’essere la coppia genitoriale composta da persone dello stesso sesso, unite da stabile legame affettivo, atteso che alcun principio, tanto più di rilevanza costituzionale, preclude a costoro di accogliere, allevare, nonché generare figli, anche considerato che la discendenza biologica non è ormai più requisito essenziale della filiazione. Di contro, conclude la Cassazione, si deve aver riguardo al principio, questo sì di rilevanza costituzionale primaria, di tutela dell’interesse superiore del minore, che si sostanzia anche nel suo diritto alla continuità dello status di filiazione, nella specie con riferimento a due donne, ad entrambe le quali è biologicamente legato, validamente acquisito all’estero, oltretutto in altro paese dell’UE. In termini Trib. Napoli 2 dicembre 2016, di prossima pubblicazione in Foro it., relativo sempre alla trascrizione di un atto di nascita spagnolo dove un minore è indicato come figlio di due donne, madre A e madre B, di cui solo una è quella biologica, sul presupposto che comunque la nascita era avvenuta nell’ambito di un progetto di genitorialità condiviso. Deve infine segnalarsi Corte Cost. 20 ottobre 2016 n. 225, Foro it., 2016, I, 3329, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 337-ter c.c. nella parte in cui non consente al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore conservare rapporti significativi con l’ex partner del genitore biologico (anche dello stesso sesso, come nel caso di specie), in riferimento agli art. 2, 3, 30, 31 e 117 cost. La Consulta, discutibilmente, ha specificato che l’interesse del minore alla conservazione di un rapporto significativo con soggetti che non siano parenti trova tutela nella facoltà riconosciuta al giudice, dall’art. 333 c.c., di adottare i provvedimenti convenienti nel caso concreto, e ciò sul ricorso del Pm, anche su sollecitazione dell’adulto, non parente, coinvolto nel rapporto in questione.



8. Lo scioglimento dell’unione civile



La fattispecie fisiologica di scioglimento dell’UC è la morte di una delle parti, espressamente prevista dal co. 22 (in termini con l’art. 149, 1° c.), a conferma della stabilità “matrimoniale” dell’istituto. La l. 76/16 – a differenza del disegno originario che estendeva in blocco alle UC il regime matrimoniale incentrato su separazione e divorzio – ha optato per la massima semplificazione del regime di scioglimento, abbandonando – ma solo in parte – la tecnica del rinvio alla disciplina del matrimonio. Il dato più eclatante sta nella soppressione di ogni riferimento al regime della separazione legale (consensuale o giudiziale che sia). Non troverà così applicazione – come accennato – l’istituto dell’addebito, di cui all’art. 151 c.c. Le parti dell’UC, in caso di crisi irreversibile, non avranno altra scelta che il divorzio. Si tratta di una soluzione del tutto apprezzabile, che dovrebbe costituire un modello per lo stesso matrimonio. La giurisprudenza, infatti, ormai configura con chiarezza il matrimonio, in una prospettiva laica ed europea, essenzialmente come rapporto fondato sul permanere del consenso di entrambi i coniugi, al di là di ogni prospettiva di sanzione pubblicistica e di ogni favor per la conservazione di unioni ormai esaurite. Un’ulteriore ricaduta è che separazione e — soprattutto — divorzio hanno assunto il connotato di vero e proprio diritto di ciascuno dei coniugi, anche di quello responsabile del fallimento dell’unione. La l. in esame, coerentemente, neppure ha richiamato l’art. 1 l. div., e quindi l’obbligatorio accertamento, da parte del giudice, del venir meno della comunione (spirituale e materiale) tra i coniugi, che invero costituisce un mero relitto storico, privo di ogni rilevanza operativa; sono però indicate le fattispecie ricorrendo le quali può chiedersi il divorzio (rectius, lo scioglimento dell’UC: ma è noto che la parola divorzio non appare mai nella l. 898/70). I co. 23 e 24 l. si caratterizzano però per una pessima tecnica legislativa (che risente, evidentemente, di una redazione quanto mai frettolosa), delineando (forse inconsapevolmente) due distinte e poco compatibili macrofattispecie di divorzio, la prima di carattere obiettivo, la seconda soggettivo (ma è comunque possibile anche il divorzio stragiudiziale, in forza del rinvio alla negoziazione assistita ovvero al divorzio cd. municipale, di cui agli art. 6 e 12 132/2014, conv. in l. 162/2014). Così il co. 23 richiama i “casi previsti dall’art. 3 n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e)” della l. div. Si tratta di ipotesi – di rara verificazione – di divorzio immediato, senza cioè il decorso del periodo di separazione legale, di cui all’art. 3, 1° c., n. 2 b) l. cit., fattispecie ormai non applicabile alle UC (sia perché non richiamata, sia soprattutto perché per queste non è prevista la separazione legale). Vi è però un’altra macrofattispecie di divorzio, questa volta soggettiva: recita infatti il co. 24 che “l’UC si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale di stato civile. In tal caso la domanda di scioglimento dell’UC è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione”. La dichiarazione di volontà rilevante ai fini dello scioglimento, quindi, può essere sia congiunta che unilaterale (quindi di carattere potestativo); in particolare non mi sembra possa revocarsi in dubbio che è sufficiente, ai fini del divorzio, la dichiarazione anche solo di una delle parti: l’avverbio disgiuntamente deve interpretarsi in tale senso, e non in quello (pur da taluno prospettato) che, ai fini del divorzio, sarebbero comunque necessarie le dichiarazioni (quindi il consenso) dell’uno e dell’altro, pur se espresse in momenti diversi.

Tale lettura è palesemente assurda, in quanto renderebbe sostanzialmente indissolubile l’UC, in mancanza di accordo, e al di fuori delle residuali e rare fattispecie di cui al co. 23, il che, ovviamente, non si configura neppure con riferimento al matrimonio. Si tratta poi di dichiarazione/dichiarazioni immotivate (appunto potestative), sottratte ad ogni controllo giudiziario (salvo a non voler considerare tale il tentativo di conciliazione condotto dal presidente del tribunale ai sensi dell’art. 4, 7° c. l. div., applicabile – sempre se ritenuto compatibile – ai sensi del rinvio operato dal co. 25, di cui si dirà). Non ritengo – contrariamente a parte della dottrina – che tali dichiarazioni debbano essere rese personalmente dalla parte interessata “dinanzi” all’ufficiale di stato civile: se infatti non è forse sufficiente una comunicazione scritta (pur autenticata), tenuto conto del tenore della norma, ritengo però che sia possibile avvalersi, al riguardo, di un procuratore speciale (la l., e così i decreti attuativi sopra richiamati, nulla dice circa le modalità con le quali le dichiarazioni vanno rese, e la loro annotazione e conservazione). Può richiamarsi, in tal senso, un recente orientamento giurisprudenziale, che appunto ammette il ricorso al procuratore speciale per rendere la (ben più rilevante, in quanto vi consegue tout court la separazione o il divorzio) dichiarazione di scioglimento del matrimonio, di cui all’art. 12 d.l. 132/2014 conv. in l. 162/2014 cit., cfr. Trib. Milano 19.1.16, in Foro it., 2016, I, 1477. L’ufficiale di stato civile competente dovrebbe essere quello del Comune di costituzione dell’UC, o anche quello del luogo di residenza di una delle parti (salvo che, in simmetria con quanto previsto per la costituzione dell’UC, non si voglia ritenere – ma mi sembra contrastare con esigenze di certezza e di tutela dell’altra parte – che si possa scegliere liberamente il Comune cui riferire la dichiarazione). Quel che però più rileva, a conferma della pessima tecnica legislativa cui facevo cenno, è che – a fronte dell’amplissima fattispecie del co. 24 cit., fondata su dichiarazioni anche unilaterali e immotivate – perde di significato la previsione, di cui al co. 23 cit., di fattispecie specifiche di scioglimento di carattere obiettivo. L’unica, modestissima differenza, sta – in apparenza – solo nel fatto che, per le fattispecie di cui al co. 23, si può ricorrere immediatamente in giudizio, senza la previa manifestazione di volontà all’ufficiale di stato civile; di contro per quella del co. 24 la dichiarazione surrichiamata – e il decorso di un trimestre, decorrente evidentemente dalla prima dichiarazione (funzionale, evidentemente, ad un eventuale ripensamento), dovrebbero precedere l’esercizio dell’azione. Quid iuris se la/le parti omettono la dichiarazione, ovvero l’azione è proposta prima del decorso del trimestre? La l. non sembra prevedere alcuna sanzione per tali omissioni, ove non voglia ritenersi che l’eventuale improponibilità/improcedibilità della domanda discenda dal sistema: ritengo pertanto che la violazione della prescrizione in oggetto non dovrebbe comportare (al di là delle intenzioni del legislatore) alcuna conseguenza processuale (non vi è poi dubbio che in materia non opera la mediazione obbligatoria di cui al d.lgs. 28/2010), con ulteriore conferma della inutilità della distinzione delle fattispecie di cui al co. 23 e 24 della l.

Infine, ed in ogni caso, nel silenzio della l. ritengo che non occorra né la dichiarazione, né il decorso del trimestre, ove le parti abbiano optato per il divorzio stragiudiziale. La tecnica del rinvio torna invece per il procedimento divorzile: il co. 25, infatti, pur introducendo la clausola di compatibilità, prevede in primo luogo l’applicazione degli artt. 4 e 5 (co. 1 e da 5 e 11), 1° c. della legge 898/1970 cit., che dettano appunto le disposizioni procedurali del divorzio (da qui, appunto, la legittimità della definizione in tal senso dello scioglimento dell’UC). Non è quindi introdotto un nuovo, autonomo procedimento: può anzi richiamarsi, in blocco, la giurisprudenza che si è formata, negli ultimi decenni, sul procedimento divorzile. Ovviamente vi sarà pieno spazio per il divorzio su ricorso congiunto e per quello pronunciato con sentenza non definitiva. La clausola di compatibilità avrà ben scarso spazio applicativo: le disposizioni richiamate (e quelle di cui si dirà) sono tutte sicuramente applicabili anche all’UC, compreso (credo) il tentativo di conciliazione in sede di udienza presidenziale (questa sicuramente indispensabile per l’adozione dei provvedimenti provvisori, di cui all’art. 4, co. 8 l. div., che ben potrebbero riguardare anche i figli). Tale clausola potrebbe forse richiamarsi in relazione al rinvio, pure contenuto nel co. 25, alle disposizioni di cui al Titolo II del libro IV c.p.c., le disposizioni processuali in tema di separazione dei coniugi, tanto benché per le UC la separazione non è prevista. In dottrina si è però segnalato, ragionevolmente, che il pur maldestro legislatore abbia inteso affermare l’applicabilità, alle UC, di quelle disposizioni che – pur riferite alla separazione – sono applicabili anche al divorzio (per identità di ratio, ma anche in forza di rinvii e richiami, cfr ad es. la l. 54/2006). Il riferimento è, ad es., all’art. 708, co. 4 c.p.c., sul reclamo avverso i provvedimenti presidenziali, ma anche allo stesso art. 706 in materia di competenza per territorio, dovendo affermarsi in prima battuta quella del luogo dell’ultima residenza comune delle parti (pur se al riguardo opera anche l’art. 4 co. 1 l. div.). Trovano poi integrale applicazione il regime dell’assegno divorzile, anche una tantum (art. 5, co. 6 ss.), il che comporta che, complessivamente, il regime di solidarietà postmatrimoniale, previsto dalla l. div. si estende integralmente all’UC (confermandone anche sotto tale profilo la sostanziale equiparazione al matrimonio), ed in generale le disposizioni, anche sostanziali, di tutela del coniuge economicamente più debole, e ora quindi della parte più debole della UC. Potrebbe esservi spazio anche per l’assegnazione della casa familiare, funzionale all’affidamento/collocamento della prole, ex art. l’art. 155-sexies c.c., nelle ipotesi (come si è detto configurabili) di presenza di figli “comuni” delle parti.



9. La conversione dei matrimoni omosessuali stranieri in UC



La l. ancora prevede, la delega al Governo per il riordino e l’adeguamento della legislazione vigente, cfr. co. 28-31.): la clausola di equivalenza, di cui al co. 20, in effetti, non è in grado di risolvere tutte le criticità (e le esigenze di adeguamento normativo) che comunque si porranno. In particolare in giurisprudenza si è posta reiteratamente la questione del riconoscimento dell’efficacia, nel nostro Paese, degli atti di matrimonio contratti all’estero, dove è consentito, da coppie omosessuali. L’orientamento prevalente, in realtà, è per la negativa, pur se non manca qualche eccezione. In particolare App. Napoli 8 luglio 2015, Foro it., 2016, I, 297, ha disposto la trascrizione di un matrimonio contratto in Francia da due cittadine francesi (una anche cittadina italiana) precisando che questa, non contraria all’ordine pubblico, è imposta dall’esigenza di salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione europea, quali quello a non subire discriminazioni, nonché alla libertà di circolazione e stabilimento nei paesi membri dell’Unione (rispettivamente art. 18 e 21 Tfue). Il co. 28 b) prevede così la delega anche per la modifica ed il riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo “l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”. Il Governo ha in effetti predisposto il relativo schema del d.lgs. delegato, reperibile in articolo29.it. che, novellando la l. 219/1995, introduce – tra l’altro – gli artt. da 32-bis a 32-quinquies. In particolare l’art. 32-bis dispone che il matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso produce nel nostro ordinamento gli effetti dell’UC. Quid iuris, però, qualora le parti, coniugi secondo la legge straniera, non si accontentino della conversione in UC, e insistano per la trascrizione tout court dell’atto di matrimonio straniero? Le parti potrebbero avere al riguardo un interesse concreto: si ricordi che, alla stregua di quanto sopra osservato, rimangono significative differenze di regime tra i due istituti, pur per altro verso tanto vicini, cfr anche Corte eur. diritti dell’Uomo 16 luglio 2014 cit.). È anzi proprio la nuova l., riconoscendo rilevanza giuridica al legame stabile tra coppie dello stesso sesso (sia pure sotto forma di UC) a porre il problema su basi nuove: sarà davvero difficile, infatti, continuare a ritenere che il matrimonio omosessuale straniero possa essere davvero privo di effetti nel nostro Paese. Si noti che anche App. Milano 10 dicembre 2015 cit., pur negando la trascrizione del matrimonio straniero, ha comunque non solo disposto quella dell’adozione piena (sempre straniera) della figlia biologica di una partner da parte dell’altra, ma ha anche riconosciuto l’efficacia, nel nostro ordinamento, dell’accordo divorzile, tra le stesse parti, circa l’affidamento, il collocamento ed il mantenimento della figlia medesima. La situazione è tanto più grave con riferimento a matrimoni contratti in Paesi dell’Unione europea (importa poco se da italiani o altri cittadini dell’Unione), come già evidenziato da App. Napoli 8 luglio 2015 cit. Al riguardo, va richiamato anche il d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, di attuazione della direttiva 2004/38/Ce relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, il che comporta quello che la dottrina ha configurato come diritto alla “libera portabilità degli status”. In definitiva, quindi, prima ancora che un dubbio di costituzionalità, si pone (rectius, sta per porsi) un rilevante dubbio di conformità all’ordinamento comunitario, che dovrà essere risolto, a mezzo di rinvio pregiudiziale, dalla Corte del Lussemburgo.