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Brevi note sui rapporti personali e patrimoniali nell’unione civile

autore: M. Paladini

Sommario: 1. L’unione civile come “formazione sociale”. - 2. I diritti e i doveri personali nell’unione civile. - 3. I rapporti patrimoniali. - 4. L’assenza del vincolo di affinità.



1. L’unione civile come “formazione sociale”



L’analisi giuridica della disciplina delle unioni civili risente del dibattito politico e delle relative implicazioni morali, sociali e religiose che hanno accompagnato l’itinerario di approvazione della legge n. 76/2016. Purtroppo, anche il confronto giuridico talvolta ha risentito – soprattutto nei primi tempi – della passione degli interpreti, inevitabilmente suscitata da un tema così “eticamente sensibile”, relegando sullo sfondo l’approfondimento strettamente tecnico e la valutazione dell’istituto dell’unione civile secondo il suo effettivo “essere” normativo. È capitato spesso, quindi, di assistere ad analisi della nuova normativa incentrate ora sul plauso ora sulla censura nei confronti del legislatore, accusato, da alcuni, di timidezza nell’equiparazione tra unione civile e matrimonio e, da altri, addirittura di pavidità a proposito del mancato riconoscimento del diritto all’adozione. Nel tentativo di proporre un’analisi fondata sul solo dato normativo, occorre muovere, anzitutto, dalla definizione dell’istituto come “specifica formazione sociale ai sensi dell’art. 2 e 3 della Costituzione. Tale definizione non è priva di valenza sistematica, in quanto – a parte la chiara scelta di non richiamare l’art. 29 Cost. – il legislatore sembra optare, in palese controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale, per la “tipizzazione” delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. e per il ritorno all’originario impianto costituzionale della norma. Il travisamento dell’art. 2 Cost., a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, si coglie agevolmente dall’esame dei lavori preparatori dei Costituenti, i quali – nel proclamare il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali… – non intendevano attribuire rilievo costituzionale a qualunque formazione sociale, ma, al contrario, sottolineare la necessità di tutelare i diritti dell’individuo anche all’interno di gruppi e formazioni sociali, per scongiurare il rischio che l’appartenenza a una formazione sociale potesse affievolire o compromettere tale tutela1.

In questo senso, si era inizialmente ritenuto, da parte della Corte Costituzionale, che l’art. 2 Cost., in riferimento alle formazioni sociali, dovesse assumere una valenza logicogiuridica essenzialmente negativa. Ad esempio, è noto che, in passato, i militari fossero soggetti a particolari limitazioni relative all’età del matrimonio o, addirittura, alla necessità di autorizzazione da parte dei loro superiori: tali previsioni normative sono immediatamente cadute sotto la “scure” dell’art. 2 Cost. proprio in funzione della prevalenza costituzionale del valore della persona rispetto alla formazione sociale costituita dell’arma militare di appartenenza. Non si riteneva, invece, che l’art. 2 potesse attribuire automatica rilevanza costituzionale a formazioni giuridiche non riconosciute dal legislatore. Al contrario, erano ritenute formazioni sociali di rilievo costituzionale soltanto quelle previste all’interno del testo costituzionale, come le minoranze linguistiche (art. 6), le confessioni religiose (artt. 8, 19, 20), le associazioni (art. 18), il matrimonio, la famiglia (art. 29), i partiti politici (art. 49), i sindacati (art. 39), la scuola (art. 34), l’università (art. 33), ecc. Vi sono, poi, numerosissime formazioni sociali che, pur previste e disciplinate dalla legge ordinarie (si pensi alle società commerciali, alle organizzazioni di volontariato, all’ordinamento sportivo, ecc.) che, pur rispondendo a intuibili esigenze sociali massimamente meritevoli di tutela, non hanno copertura costituzionale: ipotizzando ad absurdum una legge che abrogasse la figura giuridica del comitato (art. 39 c.c.), non si potrebbe censurare la previsione sul piano della violazione dell’art. 2 Cost. Ma ciò costituisce, invero, la dimostrazione che l’art. 2 non attribuisce automatico rilievo costituzionale a ogni formazione sociale, né ove quest’ultima abbia un riconoscimento e una disciplina legislativa né, a fortiori, ove si tratti di “formazioni sociali atipiche o spontanee”, come l’esempio di scuola del gruppo di amici che intraprenda la consuetudine di giocare a carte o a calcio. La scelta di definire l’unione civile come “formazione sociale” e, nello stesso tempo, di negare l’identica qualificazione nei riguardi delle convivenze di fatto pare rivendicare, dunque, la prerogativa legislativa circa la qualificazione delle formazioni sociali e fornire all’interprete una chiara indicazione restrittiva con riguardo all’elevazione costituzionale di diversi gruppi o formazioni emergenti dalla realtà sociale.



2. I diritti e i doveri personali nell’unione civile



La disciplina dei rapporti personali e patrimoniali nell’unione civile è introdotta dal comma 11 dell’art. 1, che prevede che “Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”. È immediato il confronto con l’art. 143 c.c., che regola – com’è noto – i “diritti e doveri reciproci dei coniugi”. Tre sono le significative differenze:

1. in primo luogo, il legislatore non ha ritenuto di riprodurre, all’interno dell’unione civile, l’obbligo reciproco di fedeltà;

2. in secondo luogo, non è riprodotto neppure l’obbligo alla collaborazione nell’interesse della famiglia;

3. infine, l’obbligo di contribuzione è sancito in relazione ai “bisogni comuni” e non ai “bisogni della famiglia” (come, invece, stabilisce l’art. 143, comma 3, c.c.).

L’espunzione del dovere di fedeltà ha suscitato critiche e polemiche durante l’iter di approvazione della legge. Il testo originario prevedeva tale obbligo, ma il “maxiemendamento governativo” lo ha eliminato insieme alla previsione della cd. stepchild adoption. Per intendere meglio il significato dell’esclusione dell’obbligo di fedeltà, occorre accennare al suo contenuto, così come elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Il legislatore, infatti, non definisce l’obbligo di fedeltà, ma può ritenersi pacifico che esso debba essere intenso in senso ampio, come dovere di assoluta dedizione affettiva di un coniuge nei confronti dell’altro, sia in senso fisico sia in senso spirituale. Conseguentemente, ciascun coniuge deve astenersi non soltanto da relazioni sessuali (pur occasionali) con altre persone, ma anche da legami affettivi che, per quanto platonici, abbiano un’evidenza sociale tale da recare offesa all’onore dell’altro coniuge. Costituiscono violazione dell’obbligo di fedeltà – secondo la Suprema Corte2 – anche gli “approcci” compiuti da un coniuge nei riguardi di terza persona, pur non sfociati in una relazione sessuale. D’altra parte, non deve escludersi, tuttavia, una valenza strettamente sessuale dell’obbligo di fedeltà, al punto da ritenere violato tale obbligo, ad esempio, nel caso della moglie che, all’insaputa del marito, si sottoponga ad inseminazione eterologa, o del marito che, senza il consenso della moglie, decida di donare il proprio seme. Com’è noto, la prioritaria rilevanza dell’obbligo di fedeltà si rinviene in sede di addebito della separazione personale, posto che la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che “l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giusti ficare l’addebito della separazione al coniuge responsabile”3 . Dell’esclusione dell’obbligo di fedeltà nell’unione civile sono tendenzialmente possibili, quindi, due interpretazioni:

1. una prima, concettualmente più restrittiva, secondo la quale l’esclusione dell’obbligo di fedeltà si giustifica in assenza dell’istituto della separazione personale e, quindi, dell’addebito, ove la violazione di tale obbligo trova la propria sede “sanzionatoria” naturale;

2. una seconda più ampia interpretazione ascrive, invece, l’esclusione dell’obbligo di fedeltà alla volontà del legislatore di rimarcare la differenza tra l’unione civile e il matrimonio, a favore della maggiore intensità del vincolo morale e giuridico tra coniugi.

In favore di questa seconda interpretazione possono deporre i seguenti dati sistematici.



1) In primo luogo, anche in mancanza dell’istituto della separazione personale, il legislatore avrebbe potuto parimenti sancire il dovere di fedeltà, la cui violazione avrebbe assunto comunque rilevanza nell’ambito del parametro di determinazione dell’assegno di divorzio costituito dalle “ragioni della decisione”. Infatti, il criterio delle “ragioni della decisione” postula un’indagine sulla responsabilità del fallimento del matrimonio e, quindi – anche in caso di divorzio tra coniugi – una valutazione del comportamento dell’uno o dell’altro, che abbia concretamente costituito un impedimento, anche in caso di intervenuta separazione, al ripristino della comunione spirituale e materiale e alla ricostituzione del consorzio familiare4 . Applicandosi, quindi, l’istituto del divorzio all’unione civile, la violazione dell’obbligo di fedeltà avrebbe potuto trovare la propria rilevanza sul piano della determinazione del quantum dell’assegno di divorzio. Pertanto, non pare corretto affermare che l’irrilevanza dell’obbligo di fedeltà dipenda semplicemente dalla mancata previsione dell’istituto della separazione personale. Semmai, è opportuno riflettere proprio su tale ultima omissione, per pervenire alla conferma della tesi che sottolinea la maggiore intensità del vincolo morale e giuridico tra coniugi. La separazione personale, infatti, è coerente con la tendenziale stabilità del matrimonio, di cui vi è conferma nell’art. 29 Cost., se è vero che il legislatore consente che la sospensione degli obblighi coniugali possa cessare anche sulla base di meri comportamenti concludenti, che configurino una riconciliazione intesa come ricostituzione della comunione spirituale e materiale. La circostanza che nell’unione civile, invece, non sia prevista la separazione, che costituisce un istituto volto a preservare la stabilità familiare, è la riconferma del fatto che l’unione civile non è una famiglia. Del resto, l’inapplicabilità ad essa dell’art. 29 Cost. esclude che trovi applicazione la garanzia dell’unità familiare intesa anche come stabilità.



2) All’unione civile non si è esteso neppure l’obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia: anche ciò marca una profonda differenza con il matrimonio, perché non sembra esserci un vincolo a far prevalere ciò che unisce su ciò che disunisce, o, rectius, il vincolo a rimanere in comunione di vita.



3) L’altro dato sistematico significativo è costituito proprio dalla diversa formulazione del comma 11 rispetto all’art. 143, ult. comma, c.c. Mentre tra coniugi l’obbligo di contribuzione è sancito in relazione ai “bisogni della famiglia”, l’unione civile – come precisa testualmente l’art. 1, comma 1, L. n. 76/2016 – è una “formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, ma non costituisce una famiglia, e pertanto il dovere di contribuire si pone con riferimento ai “bisogni comuni”. Tali bisogni “comuni” paiono essere nient’altro che l’intersezione tra i bisogni dell’uno e quelli dell’altro membro, cioè il criterio di contemperamento ove questi fossero confliggenti. D’altronde, l’assenza di prole nell’unione civile impedisce che l’interesse comune possa oggettivarsi in quello della famiglia come comunità allargata ai figli. I bisogni comuni dell’unione civile restano il punto di incontro dei soli due soggetti che la costituiscono. Al contrario, nel matrimonio l’obbligo di perseguire l’interesse della famiglia consiste nell’obbligo dei coniugi di permanere in comunione, dal quale consegue l’impossibilità di uno scioglimento potestativo del vincolo. Tale indicazione normativa – che pur si pone in manifesta antitesi rispetto ai numerosi richiami alla disciplina del matrimonio – consente di valutare con maggiore prudenza la tendenza a ritenere acquisita la pluralità dei “modelli familiari” e a confermare, viceversa, la centralità costituzionale dell’unico modello di famiglia fondato sul matrimonio. Una simile ricostruzione non appare smentita neppure del comma 12, che riproduce parzialmente il testo dell’art. 144 c.c. Pur menzionando testualmente, infatti, il concetto di “vita familiare”, la norma sostituisce alla “residenza della famiglia” la nozione di “residenza comune” e omette soprattutto di precisare che l’accordo debba essere funzionale alle esigenze comuni e “a quelle preminenti della famiglia” (art. 144 c.c.).



3. I rapporti patrimoniali



Anche le norme sui rapporti patrimoniali sembrano confermare l’impostazione volta a differenziare le caratteristiche dell’unione civile dal matrimonio, come base della famiglia di rilevanza costituzionale. Il comma 13 della legge n 76/2016, infatti, non menziona il “regime patrimoniale della famiglia” (come, invece, l’art. 159 c.c.), ma il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Anche in tal caso, tuttavia, il regime patrimoniale legale è quello della comunione dei beni. Apparentemente non sembrerebbe sussistere un problema di compatibilità delle norme della comunione legale con l’unione civile, ma alcune specifiche previsioni inducono ad alcuni dubbi in proposito.

a) Un primo aspetto problematico (ma di carattere prevalentemente tecnico), che concerne il rapporto tra unione civile e comunione legale, riguarda l’art. 191, comma 2, c.c., come risultante dalla modifica introdotta dalla legge n. 55/2015. Poiché – come si è detto – nell’unione civile non sussiste la separazione personale ma soltanto il divorzio, si verifica il paradosso per cui nel matrimonio la comunione legale si scioglie nel momento in cui il presi dente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, nell’unione civile, invece, occorrerà attendere il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.

b) Ma il profilo di più difficile coordinamento attiene alle norme che menzionano l’interesse “della famiglia”. Se è vero, infatti, che tanto il comma 11 quanto il comma 12 escludono che nell’unione civile sussista un “interesse della famiglia” (e, in definitiva, che di “famiglia” si possa parlare tout court con riguardo all’unione civile), si dovrebbe escludere l’applicabilità dell’art. 186, lett. c, c.c. nel caso di obbligazioni contratte separatamente da un partner dell’unione civile e limitare la responsabilità patrimoniale dei beni comuni alle sole obbligazioni contratte congiuntamente (art. 186, lett. d, c.c.). Il tal modo, la responsabilità patrimoniale delle parti dell’unione civile non si differenzia particolarmente da quella di diritto comune e si riducono le ipotesi di dissociazione tra titolarità dell’obbligazione e soggezione patrimoniale. Tale dissociazione resta, tuttavia, nel caso dell’art. 189 c.c., che assoggetta i beni della comunione, nei limiti della quota spettante al coniuge debitore, al soddisfacimento delle obbligazioni assunte separatamente da una delle parti dell’unione civile. Salvo ammettere (con un certo margine di spregiudicatezza interpretativa) che la nozione di “interesse della famiglia” debba essere automaticamente sostituito con quello di “interesse comune” delle parti dell’unione civile, analoghi problemi di compatibilità si pongono per gli artt. 192-193 c.c., ma soprattutto con il ripetuto richiamo ai “bisogni della famiglia” contenuto in materia di fondo patrimoniale. A tale proposito, la più attenta dottrina5 ha sottolineato “l’evidente collegamento tra l’obbligo di contribuzione, posto a carico dei coniugi (art. 143 c.c.) e dei figli (art. 315 c.c.) [ora art. 315 bis], ed i bisogni della famiglia al cui soddisfacimento sono funzionalizzati gli istituti del fondo patrimoniale e dell’usufrutto legale. Si delinea così un quadro dal quale emerge il disegno dell’ordinamento di consentire o facilitare agli obbligati l’adempimento, mediante detti istituti, dei doveri di contribuzione e di mantenimento previsti nell’ambito della famiglia nucleare […]. In particolare, il fondo patrimoniale, appartenendo ai coniugi, diviene strumento di adempimento del dovere di contribuzione”. Orbene, nel momento in cui il legislatore ha optato (con scelta che deve presumersi consapevole) per l’esclusione del dovere di contribuzione nell’interesse “della famiglia”, tale da trascendere i meri interessi “comuni”, l’estensione dell’istituto del fondo patrimoniale all’unione civile appare una conseguenza assai discutibile e probabilmente destinata a relegare ulteriormente l’istituto a “ultima (modesta) spiaggia segregativa”, per scopo meramente elusivo della responsabilità patrimoniale e con diffusione sempre più limitata nella prassi.

4. L’assenza del vincolo di affinità



Per una concezione restrittiva del vincolo nascente dall’unione coniugale, depone altresì l’assenza di qualsivoglia rapporto di affinità tra ciascuna parte dell’unione e i parenti dell’altra. Il comma 20 stabilisce che “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obbli ghi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”; tuttavia, ciò non vale per gli istituti regolati nel codice civile, perché lo stesso comma 20 precisa che “La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184”. Non essendo richiamato espressamente, pertanto, non si applica l’art. 78 c.c. e non si instaura il rapporto di affinità per effetto dell’unione civile. Una tale differenza non è di secondario rilievo, se è vero che – com’è stato scritto in una recente profonda analisi dell’istituto del matrimonio6 – “il sorgere del vincolo [di affinità] […] dimostra la natura istituzionale del matrimonio, nel senso che questo inerisce la famiglia nei legami della socialità (non casuale, allora, è la collocazione della disciplina della famiglia nei ‘Rapporti etico-sociali’ e non nei ‘Rapporti civili’), così riconferma l’esclusività degli effetti del matrimonio”. L’assenza del vincolo di affinità conferma, pertanto, che l’unione civile – nonostante la sovrabbondanza, talvolta ipertrofica, di estensioni normative – non è un matrimonio e da quest’ultimo deve restare nettamente distinto se si intende salvaguardarne la sua compatibilità col dettato costituzionale. Tuttavia, l’assenza del vincolo di affinità può porre problemi di coordinamento con la clausola generale, contenuta nell’incipit del comma 20: sul presupposto del vincolo di affinità si fondano, infatti, alcuni diritti che astrattamente potrebbero essere riconosciuti anche in caso di unione civile. Si pensi all’art. 6, legge n. 392/78, là dove attribuisce il diritto di succedere nella locazione agli affini abitualmente conviventi col conduttore deceduto: posto che il genitore (o il figlio) dell’altra parte dell’unione civile non è affine, quest’ultimo non potrebbe pretendere di succedere nella locazione. Salvo che la Corte Costituzionale promuova un’ulteriore estensione dell’ambito applicativo della norma in base alla rilevanza primaria del diritto all’abitazione, può affermarsi che tali limitazioni risultano coerenti sia con la prevalenza delle previsioni codicistiche rispetto alle norme speciali di carattere derivato, sia con l’assenza di rilevanza generale socio-istituzionale dell’unione civile, la quale – a differenza del matrimonio – costituisce (secondo l’espressa proclamazione legislativa) una formazione sociale, ma non una struttura originaria e fondamentale nell’organizzazione della società.

NOTE

1 In verità, nell’originaria formulazione proposta da Giorgio La Pira si faceva riferimento “comunità

naturali”. Quest’ultimo il 9 settembre 1946 osservava che, non tenendo conto dei “diritti delle

comunità fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande”, si otterrebbe “soltanto una

parziale affermazione dei diritti dell’uomo con tutte le dannose conseguenze che ne

deriverebbero; includendoli, invece, si arriva alla teoria del cosiddetto pluralismo giuridico che

riconosce i diritti del singolo e i diritti delle comunità e con questo dà una vera integrale visione

dei diritti imprescrittibili dell’uomo”. Giuseppe Dossetti dichiarava, invece, di preferire

l’espressione “forme sociali”, poi modificata in “comunità intermedie” e, infine, precisata in sede

di Assemblea con la formula attuale. In risposta ai dubbi che l’espressione “formazioni sociali”

avrebbe potuto ingenerare negli interpreti, il 24 marzo 1947 Aldo Moro rispose che “la libertà

dell’uomo è pienamente garantita, se l’uomo è libero di formare degli aggregati sociali e di

svilupparsi in essi”.

3 Cass. 14 agosto 2015, n. 16859. È fatta salva, tuttavia, la possibilità che “si constati, attraverso un

accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi,

la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di

una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente

formale”.

4 Cass. 17 dicembre 2012 n. 23202.

5 T. auletta, Il fondo patrimoniale, in Comm. Cod. Civ. diretto da P. sChlesinGeR, Giuffré, Milano,

1992, 185-186.

6 A. RenDa, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Giuffré, Milano, 2013, 166-167.