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Il diritto antidiscriminatorio nel diritto di famiglia: una trasposizione di matrice europeista

autore: O. Mascolo

Sommario: 1. Diritto codificato e diritto vivente, mutazioni sociali e politica legislativa nell’Unione Europea. - 2. Il Trattato di Lisbona, art. 81: l’intervento dell’UE nelle questioni riservate alla competenza legislativa esclusiva degli stati membri. - 3. La libertà di autodeterminazione nella giurisprudenza delle Corti UE: l’interpretazione estensiva della nozione di coniuge. - 4. La libertà di autodeterminazione nella giurisprudenza delle corti italiane: la famiglia e la revisione del dogma. - 5. Il Trattato di Amsterdam, l’art. 13 e il divieto di discriminazione in funzione dell’orientamento sessuale; nuove frontiere del diritto antidiscriminatorio nel panorama UE, il caso KB/Regno Unito. - 6. La Convenzione di Strasburgo del 1996 e la legge n. 54 del 2006. La libertà di autodeterminazione del minorenne in ambito giudiziario, un ossimoro tra libertà di espressione e obbligo di ascolto. - 7. Alfa e Omega del nuovo diritto di famiglia, la nozione di identità e il diritto al nome. - 8. Il paradigma del diritto antidiscriminatorio in Italia: la sentenza CEDU 2014 nell’affaire Cusan-Fazzo/Italia, un disegno di legge - La sentenza CEDU 2015 nell’affaire Oliari/ Italia, una legge dello Stato. - 9. La legge n.76 del 2016 tra disuguaglianza e progresso. Libertà di autodeterminazione nell’identità personale e nell’orientamento sessuale: una macchia o un privilegio? - 10. Il cognome paterno, salvo diversa volontà. Corte Costituzionale 8 novembre 2016. - 11. I principi di diritto dell’Unione e loro trasposizione nel nuovo diritto di famiglia: un anagramma incompiuto. Conclusioni.



1. Diritto codificato e diritto vivente, mutazioni sociali e politica legislativa nell’Unione Europea



La locuzione “nuovo diritto di famiglia” è correntemente impiegata per indicare quel complesso di norme con cui si è novellata la disciplina giuridica della famiglia e dei diritti della persona. Questo nuovo diritto è una risposta normativa e fisiologica al processo sociale di mutazione della famiglia, tradizionalmente intesa, e trova origine e causa nell’affermazione e tutela della libertà di autodeterminazione dell’individuo. Sulla base di siffatte premesse, il nuovo diritto di famiglia costituisce il prodotto della trasposizione del diritto antidiscriminatorio (di matrice comunitaria) al tradizionale diritto di famiglia, trasposizione attuata attraverso il progressivo rafforzamento della tutela dei diritti e libertà fondamentali nella dimensione della vita privata e familiare. Di fatto, benché la Famiglia sia rimasta a lungo l’unica (l’ultima) cellula indenne alle evoluzioni del progresso giuridico e sociale, nell’ultimo decennio è stata protagonista di riforme epocali in tutto il territorio dell’Unione Europea e ciò in quanto essa è dimora eletta di personalità, attraverso l’esercizio dei diritti e libertà fondamentali ma, al contempo, in ragione della penombra in cui si svolge la vita privata, è dimora eletta per le condotte discriminatorie che tendono a negare quegli stessi diritti e libertà. Al fine di una più attenta comprensione del complesso processo giuridico in esame, può essere utile osservare il diritto di famiglia dall’angolazione dei suoi originari confini, per giungere alla conclusione che questo “nuovo” diritto è nelle sue “nuove frontiere”, ampliatesi per ricomprendere nella nozione di famiglia proteiformi ed inesplorate dimensioni di vita privata. Il principio motore dal quale si è avviato questo inarrestabile processo di trasformazione trova origine nei percorsi di politica legislativa e sociale, a loro volta rivenienti dall’inevitabile confronto osmotico tra sistemi sociali e giuridici profondamente differenti tra loro, tutti chiamati a convergere nel più ampio contesto dell’Unione Europea. In una più immediata riduzione, si può affermare che le fonti del nuovo diritto di famiglia sono radicate nel diritto dell’Unione Europea.



2. Il Trattato di Lisbona, art 81: l’intervento dell’UE nelle questioni riservate alla competenza legislativa esclusiva degli stati membri



Vero è che non è dato un diritto di famiglia dell’Unione Europea, inteso come complesso sistematico di norme omogenee e anzi, a tal proposito, l’art. 81 del Trattato di Lisbona conferma la sovranità legislativa assoluta di ogni singolo Stato membro; tuttavia, la predetta riserva legislativa, non esclude la competenza dell’Unione per la cooperazione giudiziaria nelle materie civili aventi implicazioni transnazionali, funzionale ad un progressivo allineamento delle legislazioni nazionali ed infatti, nel testo dell’art. 81 del trattato, è precisato che “le misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali sono stabilite dal Consiglio che delibera secondo una procedura legislativa speciale”. Sebbene dunque, la competenza generale resti saldamente riservata ai singoli stati membri, l’Unione ha affermato la propria potestà normativa, limitativa della libertà statuale, vietando normative nazionali che si pongano in contrasto con i principi e le finalità dei trattati. La Corte di Giustizia infatti ha più volte chiarito che sono soggette al suo sindacato anche le materie di competenza esclusiva degli stati, quando la loro disciplina pregiudichi o interferisca con i principi fondamentali affermati nel trattato con l’ulteriore conseguenza, in tal caso, che le norme nazionali confliggenti dovranno essere rimosse. Per queste ragioni il diritto dell’unione e dei trattati internazionali, e in particolare della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, costituiscono fonte primaria del nuovo diritto di famiglia edificato essenzialmente sulle norme di cui agli artt. 8-12-14 CEDU in combinato disposto, nel nostro ordinamento, con la Carta Costituzionale.

Tutte le leggi di riforma della materia che qui ci occupa, intervenute nei Paesi membri dell’Unione nell’ultimo decennio, sono approdate negli ordinamenti degli Stati in seguito alla capillare affermazione del diritto dell’Unione, attraverso la giurisprudenza delle Corti Europee e dei principi di diritto ivi affermati.



3. La libertà di autodeterminazione nella giurisprudenza delle Corti UE: l’interpretazione estensiva della nozione di coniuge



Così, ad esempio, la destrutturazione della famiglia e la progressiva rilevanza dei legami affettivi non costituiti nel vincolo coniugale, sintomatica di nuove istanze sociali, ha avuto incipit in questioni giuridiche di altra natura, quali le prestazioni previdenziali (Reg. UE 3518/85) e la libertà di circolazione e soggiorno (Reg. 1612/68), tutte devolute all’esame della Corte di Giustizia. Meritano annotazione le pronunce della CGUE su alcuni casi in particolare, ove sono indicati nuovi criteri interpretativi delle disposizioni statutarie, funzionali a che il diritto codificato sia concretamente applicabile al diritto vivente e al progressivo mutamento del contesto sociale.



CGUE, 1993 Arauxo- Dumay/ Sull’equiparazione del convivente al coniuge al fine di riconoscere il diritto alla pensione di reversibilità la Corte ha affermato che la nozione di coniuge o matrimonio contenuta nelle disposizioni statutarie non è suscettibile di interpretazione estensiva tanto da ricomprendervi situazioni di convivenza o unioni di fatto, poiché una tal interpretazione estensiva comporterebbe una modifica del fondamento giuridico delle disposizioni in esame, con rilevanti conseguenze in campo giuridico ed economico per la Comunità e per i terzi.



CGUE, 1996 Reed/Olanda Nella sentenza in esame, sulla questione formulata dal tribunale olandese in ordine alla interpretazione dell’art 10 del Reg. 1612/68 e dunque alla equiparazione del compagno convivente al coniuge, la Corte di Giustizia ha affermato che l’interpretazione delle nozioni giuridiche, ove basata sull’evoluzione della società, deve essere effettuata esaminando la situazione nel complesso della comunità e non già limitatamente a quella di un singolo Stato membro o alcuni di essi; ovverosia, l’interpretazione estensiva – e dunque l’equiparazione tra convivente e coniuge – è ammissibile se ed in quanto essa coincida con il comune sentire nel contesto sociale dell’Unione.



CGUE, 2002 Carpenter/Regno Unito Nel caso Carpenter la Corte riconosce la rilevanza della convivenza more uxorio e dei legami affettivi ivi costituiti, tanto da ritenerla meritevole di tutela prevalente sulle esigenze di sicurezza e ordine pubblico opposte dallo Stato del Regno Unito. Nello stesso senso Orphanopulos del 2006 e il più recente Schalk-Kopft /Austria del 2010. Successivamente a queste note pronunce della CGUE, si è assistito ad un progressivo allineamento delle legislazioni nazionali nel senso di legittimare le unioni non coniugali, talvolta equiparando i conviventi ai coniugi, comunque attribuendo al fatto della convivenza autonoma dignità e disciplina giuridica.



4. La libertà di autodeterminazione nella giurisprudenza delle corti italiane: la famiglia e la revisione del dogma



Nel panorama della giurisprudenza nazionale, la convivenza more uxorio è andata assumendo autonoma dignità in quanto formazione sociale meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost. e, per questa via, ha progressivamente eliso la centralità della famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 Cost., per accogliere nuove dimensioni familiari e affettive. Copiosa e risalente la giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione, in sede di revisione delle condizioni di separazione e divorzio, nonché in tema di responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 13654 del 16 giugno 2014) o di illecito endofamiliare sul diritto del convivente al risarcimento del danno per violazione degli obblighi familiari (Cass. n. 15481 del 20 giugno 2013). Non si trascuri che nelle pronunce della Suprema Corte, nel tal ambito, è spesso richiamato l’art. 8 della Convenzione Europea, a motivare la tutela del diritto alla vita familiare in un’accezione non riservata esclusivamente alle unioni coniugali. La libertà di autodeterminarsi nella vita familiare, che sottende al riconoscimento delle unioni non costituite nel matrimonio, governa e muove la pretesa legittimazione delle unioni omosessuali, fronte da cui si contesta una diffusa e larvata resistenza statuale di matrice discriminatoria. In tema di transessualismo la Corte Costituzionale, con sentenza n. 161 del 1985, ha riconosciuto che l’identità sessuale è un elemento dell’affermazione della personalità e dell’equilibrio psico-fisico della persona; a questa pronuncia è seguita la legge n.164 del 1988 sulla riattribuzione chirurgica di sesso e cessazione degli effetti civili del matrimonio mentre, contemporaneamente, la Corte Europea con sentenza del 1986 sul caso Rees/Regno Unito negava la lesione del diritto alla vita familiare ex art. 8 CEDU lamentata dai ricorrenti, motivando sul rilievo che non potesse riconoscersi il diritto invocato in favore delle unioni omosessuali, essendo questo riservato alle sole unioni eterosessuali. Il fatto sociale delle unioni omosessuali e le diffuse condotte discriminatorie hanno dunque generato l’esigenza di nuovi strumenti di tutela, nuove definizioni e nozioni; è mutata la nozione di identità sessuale, essendo questa non più legata solo al genere biologico, ma anche al genere sociale.



5. Il Trattato di Amsterdam, l’art. 13 e il divieto di discriminazione in funzione dell’orientamento sessuale; nuove frontiere del diritto antidiscriminatorio nel panorama UE, il caso KB/Regno Unito



Con il Trattato di Amsterdam del 1999 si introduce, all’art. 13, il formale divieto di discriminazione in funzione dell’orientamento sessuale. Successivamente alla direttiva UE n. 78 del 2000 sul divieto di discriminazione sancito dall’art. 13 del Trattato di Amsterdam, in Italia entra in vigore il d.lgs. n. 216 del 2003 e, va annotato, il d.d.l. S. 87 (Malabarba) per la riforma dell’art. 3 della Cost.; merita menzione la legge Reg. Toscana n. 63 del 2004 sul divieto di discriminazione in funzione dell’orientamento sessuale, poi dichiarata costituzionalmente illegittima (si veda C. Cost. n. 253 del 2006).

Nel più ampio contesto della giurisprudenza comunitaria, si segnala il caso Goodwin/Regno Unito deciso dalla C.E.D.U. con sentenza del 2002 e il caso KB/Regno Unito deciso dalla C.G.U.E. nel 2004 con espresso riferimento al solco tracciato dal caso Goodwin. Le pronunce sui casi trattati offrono preziosi strumenti per un riesame critico del panorama sulle riforme del diritto di famiglia: – CEDU, 2002. Nel caso Goodwin (transessualismo, diritto a contrarre matrimonio in seguito a mutamento di sesso) la Corte interpreta la Convenzione nel senso di garantire alle persone transessuali il diritto a contrarre matrimonio ai sensi dell’art. 12 CEDU e, per l’effetto, di garantire alle stesse persone la rettifica dell’atto di nascita, sino a quel momento non consentita nel Regno Unito. Sussiste la violazione dell’art. 12 CEDU, nella motivazione della Corte, in quanto i transessuali che abbiano subito un intervento chirurgico di riattribuzione di sesso – non potendo rettificare l’atto di nascita – non possono contrarre matrimonio con persone di sesso opposto a quello acquisito e dunque, per l’effetto, è concretamente negato loro il diritto di contrarre matrimonio, in violazione dell’art. 12 della Convenzione.

– CGUE, 2004. Nel caso KB/Regno Unito (transessualismo, riattribuzione chirurgica di sesso e pensione di reversibilità) l’impossibilità di rettificare l’atto di nascita in seguito al mutamento di sesso, impedisce alla coppia di contrarre matrimonio e dunque alla ricorrente, in quanto convivente non coniugata, di ottenere la pensione di reversibilità. In tal caso la Corte ha affermato che non è censurabile la legge dello Stato in quanto attribuisca determinati benefici solo a coloro che abbiano determinate qualità o requisiti ma, piuttosto, è censurabile la legge dello Stato che non consenta a tutti di accedere alle stesse condizioni e/o qualità preliminari e necessarie per la concessione dei benefici. La magniloquente pronuncia della Corte di Giustizia, in cui peraltro spiega i suoi effetti l’eccezione alla riserva di competenza statuale in materia di diritto di famiglia ex art. 81 Trattato Lisbona, travalica anche il confine delle mere implicazioni transnazionali della controversia, per spingersi sino alla riaffermazione dei presupposti dei diritti riconosciuti e tutelati dallo stesso trattato. Nell’accessibilità erga omnes risiede, dunque, la concreta attuazione e l’esercizio dei diritti riconosciuti dal trattato, sanciti nella Convenzione Europea, e posti a fondamento del diritto dell’unione.



6. La Convenzione di Strasburgo del 1996 e la legge n. 54 del 2006. La libertà di autodeterminazione del minorenne in ambito giudiziario, un ossimoro tra libertà di espressione e obbligo di ascolto



Non lontana da queste premesse teoriche è la Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti del fanciullo, seguita dal Reg. UE n. 2201 del 2003 e ratificata dal nostro Paese con legge n. 77 del 2003. Accessibilità erga omnes e libertà di autodeterminazione affiorano, infatti, nel riconoscimento del diritto di partecipazione, informazione e ascolto dei minorenni in ambito giudi ziario, in tutti i procedimenti in cui debbano essere adottati provvedimenti che li riguardino. In ossequio alla legge di ratifica, con successiva legge n. 56 del 2004 (succ. mod. l. 154 del 2013) si è introdotto l’istituto dell’audizione del minorenne in ambito giudiziario, anche nei procedimenti in materia di separazione e divorzio. Si tratta del primo rilevante passo con cui si è dato avvio nel nostro Paese al processo di riforma del diritto di famiglia, oggi suggellato dalla l. n. 76 del 2016, cd. legge Cirinnà. La Convenzione di Strasburgo è stata recepita e trasfusa in leggi di riforma del diritto di famiglia in altri paesi dell’Unione, e a tal proposito è luminoso il confronto con le disposizioni di modifica del codice civile e di procedura civile introdotte nell’ordinamento francese nel 2007. L’art 388 del codice civile francese, in combinato disposto con l’art. 338 del codice di procedura civile,novellati rispettivamente con legge n. 308/2007 e legge n. 293/2007, prevede che il minorenne “possa essere ascoltato” solo previa puntuale verifica della capacità di discernimento e comunque sempre con la necessaria assistenza di persona idonea. Richiamando le considerazioni esposte in premessa, è oggi necessario verificare se ed in quale misura le riforme introdotte nel nostro Ordinamento siano effettivamente conformi e coerenti con la politica legislativa comunitaria, nel senso del progressivo allineamento della legislazione nazionale ai principi di diritto dell’Unione e dei trattati internazionali. Infatti se è vero, come vero è, che l’evoluzione del diritto di famiglia muove dall’affermazione della libertà di autodeterminazione attraverso l’esercizio dei diritti e libertà fondamentali nella dimensione della vita privata e che tali diritti sono garantiti e protetti dal sistema di rete del diritto antidiscriminatorio, è doveroso accertare se nelle nuove frontiere del diritto di famiglia sia effettivamente ricompreso e assicurato il pieno godimento di quei diritti e di quelle invocate libertà. Con riferimento alla legge n. 54/2006 (art. 155 ss. c.c.),successiva modifica d.lgs. n. 154/2013 (art. 315-bis ss. c.c.), l’istituto dell’ascolto del minore sorge dalle fonti del diritto internazionale ed in particolare:

– Conv. New York 1989 legge di ratifica n. 176 del 1991, artt. 3-12-13-14 (sulla libertà di manifestazione del pensiero - la possibilità di essere ascoltato);

– Conv. Strasburgo, art. 3 (ascolto del minorenne come facoltà, possibilità);

– Carta di Nizza del 2000, art. 7 (ex art. 6 CEDU) art. 24 (sulla libertà di opinione);

– Conv. Europea per l’Esercizio dei Diritti dei Minori (STRASBURGO 96), legge di ratifica n. 77 del 2003, artt. 3-5 (sul diritto del minorenne a ricevere informazioni, essere consultato e informato- sul diritto di essere assistito da persona appropriata anche per esprimere opinioni);

– Linee Guida Consiglio d’Europa sulla “Giustizia a misura di Minorenne” novembre 2010. In tutte le disposizioni sopra elencate predomina, su ogni altro enunciato, il diritto del minorenne ad essere informato, rappresentato e assistito (Conv. Strasburgo 96); l’audizione (o ascolto) invece, è atto destinato ad uno spazio residuo ed eventuale, in nessun caso obbligatorio e ineludibile, uno strumento per conseguire e attuare il preminente interesse della persona minorenne in ambito giudiziario; comunque una facoltà, il cui esercizio resta subordinato alla sussistenza delle condizioni e all’adozione di tutte le più opportune e concrete cautele a protezione del minore. In Italia il DIRITTO DI ASCOLTO del minorenne in ambito giudiziario, limitatamente al contesto di nostro interesse, può essere così ridotto:

– L’ascolto è obbligatorio, ineludibile, tanto da poter esser disposto anche di ufficio. Non è prevista alcuna forma di rappresentanza processuale o di assistenza del minorenne nell’atto di essere ascoltato, né può essere dirimente l’alterna qualificazione di parte sostanziale o processuale: il minore infatti è in ogni caso titolare di autonomi diritti e interessi, fisiologicamente antagonisti rispetto a quelli dei genitori (o quantomeno di uno solo di essi) nella veste di coniugi in contesa, dunque la nomina di un curatore speciale avrebbe dovuto trovare opportuna collocazione (contra Cass I Civ. n. 7478 del 2014).

– L’ascolto è diretto e togato. La presenza e l’assistenza di esperti e/o ausiliari resta in ogni caso riservata alla discrezionalità del giudice procedente che può “anche” avvalersene ai sensi dell’art. 336-bis cc, e non invece a richiesta del minorenne, del quale si trascura il diritto di essere assistito e rappresentato nel compimento di un atto indubbiamente incisivo nella fase aurorale di formazione della personalità. Il carattere obbligatorio dell’ascolto comprime e sacrifica i diritti soggettivi del minorenne impedendo la piena realizzazione del suo preminente interesse in ambito giudiziario. “L’interesse superiore” diviene uno stereotipo, un simulacro, l’etichetta ingiallita di un contenitore vuoto, anche in riferimento ai diritti fondamentali della persona, sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, quali il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21, del quale il nuovo istituto deve essere espressione. Non può escludersi neppure un profilo di contrasto in relazione al diritto alla salute ex art. 32 Cost., nell’accezione dell’equilibrio psico-affettivo del minorenne, potenzialmente minato dalla obbligatorietà della sua partecipazione al giudizio attraverso l’audizione. Dunque si può concludere affermando che l’istituto dell’audizione obbligatoria del minorenne, introdotto in Italia in ossequio alle norme di diritto dell’Unione e dei trattati internazionali, ha sì assicurato al processo l’ascolto del minorenne ma non ha altrettanto assicurato – nel processo – la concreta realizzazione del suo preminente interesse, con ciò mantenendo concretamente inalterata e aperta la voragine esistente tra il nostro Ordinamento e le fonti sovranazionali alle quali l’Unione richiede puntuale allineamento.



7. Alfa e Omega del nuovo diritto di famiglia, la nozione di identità e il diritto al nome



Fermo l’ordine logico-giuridico sin qui seguito, è agevole osservare che l’evoluzione del diritto di famiglia si snoda tutta sull’asse del soggettivismo giuridico e sulla nozione di identità, intesa come quel complesso di caratteri che distinguono la persona in una valenza pubblicistica e privatistica, la prima in relazione alla certezza dei rapporti sociali e la seconda in quanto espressione di appartenenza. Sono funzioni di identità la fede religiosa o il credo politico, l’appartenenza ad un gruppo familiare, variamente composto e costituito, nonché il genere sessuale biologico o socialmente eletto, se differente, secondo l’orientamento sessuale.

Dunque la nozione di Identità, in tutte le declinazioni considerate e nelle nuove acquisite, occupa l’intero intervallo ricompreso tra l’Alfa e l’Omega dei diritti e libertà fondamentali e coincide con la nozione di personalità. La più immediata accezione di identità è quella di cui all’art. 6 c.c. e art. 22 Cost., ove il diritto alla tutela della identità personale coincide con il diritto al nome. Nel nostro Ordinamento il nome è attribuito per legge secondo la regola (non esplicitata) del patronimico, come desumibile dal disposto degli artt. 143-bis, 262 e 299 c.c., mentre nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione è attribuito a ciascun genitore il diritto di trasmettere entrambi i cognomi – paterno e materno – ai propri figli (siano essi legittimi o naturali) e così in Francia, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Germania; anche in tal caso la parità di diritti è sancita nelle convenzioni internazionali ed in particolare nella Convenzione di New York del 1978 in cui si afferma che devono essere assicurati “gli stessi diritti personali, al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome”. Il nome, mero segno distintivo dell’identità personale, è stato poi ricompreso nel novero degli elementi costitutivi della personalità in seguito alle pronunce della Corte Costituzionale. E invero la Corte, dopo aver ripetutamente dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata per violazione dell’art. 3 della Cost. (si vedano sentt. n. 176 del 1988 e n. 13 del 1994), con sentenza n. 297 del 1996 ha affermato che il nome è un segno distintivo della personalità dichiarando che le disposizioni di cui all’art 262 c.c. sono costituzionalmente illegittime nella parte in cui non prevedono che il figlio naturale riconosciuto successivamente dall’altro genitore (padre), possa mantenere il cognome attribuito dal genitore (madre) che per primo lo abbia riconosciuto ove tale cognome, appunto, sia divenuto “autonomo segno distintivo della sua personalità”. Di fatto questa è l’unica ipotesi in cui è consentita l’attribuzione del solo cognome materno ovvero, in caso di successivo riconoscimento, del cognome di entrambi i genitori: filiazione naturale e famiglia mono-genitoriale.



8. Il paradigma del diritto antidiscriminatorio in Italia: la sentenza CEDU 2014 nell’affaire CusanFazzo/Italia, un disegno di legge - La sentenza CEDU 2015 nell’affaire Oliari/Italia, una legge dello Stato



Con successiva sentenza n. 61 del 2006 (nel noto caso CusanFazzo) la Corte è giunta a riconoscere che nel nostro ordinamento, è chiaramente desumibile – sebbene non esplicitata –, una dominazione di genere nell’attribuzione del cognome ma che tale dominazione riviene da una consuetudine profondamente radicata nel sistema giuridico tale per cui una sua modifica richiederebbe l’intervento del legislatore, come confermato dalla successiva sentenza Corte Cost. n. 145 del 2007. Nelle Corti Europee si registrano numerose sentenze pronunciate dalla CGUE tra cui si annota nel 1993 Konstantinidis/RFT e nel 2002 Garcia-Avello/Olanda, mentre la CEDU, oltre al caso Burghartz/Suisse del 1994 e Unal-Tekeli/Turchia nel 2004, con sentenza n. 77 del 9 gennaio 2014 ha definito l’affair Cusan-Fazzo/Italia, accogliendo il ricorso proposto dalla coppia di coniugi e avente ad oggetto la richiesta di attribuzione del cognome materno ai figli minorenni in sostitu zione di quello paterno. In tutte le vicende sopra richiamate, la Corte di Strasburgo ha ritenuto sussistente la violazione degli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione, affermando che il mancato riconoscimento della libertà di scelta del cognome costituisca una indebita ingerenza statuale nella libertà di autodeterminazione nella vita privata e, in ogni caso, integra una condotta discriminatoria in funzione della nazionalità e/o del sesso. Per effetto della condanna inflitta dalla Corte Europea, il 10 gennaio 2014 è approdato in Parlamento il d.d.l. n. 360, cd. “legge sui cognomi”, contenente disposizioni modificative del codice civile sulla libertà di scelta del cognome familiare e nella filiazione. Il d.d.l. tale è rimasto, dopo un primo esito favorevole nel dibattito parlamentare del 24 settembre 2014. A fronte della incontrovertibile e tuttora vigente discriminazione sessuale originata dalla “dominanza di genere” (cfr. Corte Cost., sopra) per l’attribuzione del cognome, il legislatore nazionale ha mostrato maggiore sollecitudine nell’affrontare il tema della discriminazione in relazione all’orientamento sessuale e alle unioni civili. Anche in questo caso l’impulso è nato dalla sentenza della Corte Europea nel giudizio Oliari/ Italia, luglio 2015, con cui la CEDU ha condannato lo Stato Italiano per violazione degli artt. 8-12-14 della Convenzione. Per questo profilo la legge n. 76 del 2016, cd. legge Cirinnà, costituisce una grande prova di evoluzione normativa, un inno alla libertà individuale e alla tutela della vita privata, perlomeno così appare. A ben vedere e per quanto di interesse in questa sede, tralasciando la disamina dei molteplici profili di criticità che la legge presenta, è sufficiente evidenziare che essa racchiude una lucida sintesi di stridenti asimmetrie tra disuguaglianza e progresso giuridico, tra libertà negate e discriminazioni espresse e amplificate.



9. La legge n. 76 del 2016 tra disuguaglianza e progresso. Libertà di autodeterminazione nell’identità personale e nell’orientamento sessuale: una macchia o un privilegio?



E infatti la legge 76/2016 attribuisce libertà e diritti esclusivamente in funzione della identità sessuale, con ciò operando una macroscopica discriminazione basata sul sesso e sulla funzione sociale del genere sessuale nel contesto familiare. Il par. 10, art. 1 legge 76/2016 dispone che le parti di un’unione civile “possono stabilire di assumere… un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso”, mentre non vi è analoga disposizione per i coniugi, non essendo state apportate modifiche alle summenzionate disposizioni del codice civile (art. 143-bis ss. c.c.). A ciò si aggiunga che, sebbene la legge 76 non disciplini l’adozione per le unioni civili, sono sempre più frequenti nel nostro ordinamento i casi di adozioni omoparentali (ex plur. Trib. Min. Roma, sentenza 30 luglio 2014) con attribuzione ai figli adottivi del cognome di entrambi i genitori. Ne deriva che per effetto delle disposizioni introdotte dalla l. 76/2016, sono state definite solo alcune delle questioni concernenti la discriminazione sessuale, mentre altre sono rimaste neglette, inesplorate e irrisolte. Sotto il profilo del diritto all’identità personale e alla asserita parità di diritti la discriminazione sessuale, già preesistente ma implicita e “desumibile dal sistema”, è stata esplicitata e così amplificata, in quanto estesa alla funzione sociale del genere nella vita familiare. Per un verso, la libertà di scelta del cognome e il diritto alla manifestazione della discendenza materna non trovano collocazione nella uguaglianza sostanziale di cui la legge Cirinnà vuol esser garante e in più, si aggiunga, il complessivo attuale assetto normativo si pone in stridente contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 2-3-22-29-30 Cost. Ed infatti il diritto e la libertà di autodeterminarsi, anche nella scelta del cognome (sia esso materno o paterno), costituisce una macchia o un privilegio a seconda del filtro con cui si voglia guardare alla famiglia omogenitoriale o monogenitoriale (che potrà identificarsi anche nel doppio cognome) piuttosto che alla famiglia tradizionale, eterosessuale e costituita nel matrimonio (che sarà identificata nel solo cognome paterno, salva “diversa volontà” Corte Cost. 8 novembre 2016).



10. Il cognome paterno, salvo diversa volontà. Corte Costituzionale 8 novembre 2016



La questione è posta per saltum logico e giuridico ovverosia la libertà di scelta del nome comune, nel vincolo coniugale o nelle unioni civili, è cosa diversa dalla libertà di scelta del nome da attribuire ai figli e quest’ultima non è oggetto – perlomeno direttamente – della disciplina introdotta dalla legge n. 76 del 2016. Tuttavia, per effetto della legge Cirinnà, nel nostro ordinamento vige una disciplina binaria: le persone civilmente unite dispongono di una incondizionata libertà di scelta del cognome, anche “comune”, secondo lo schema del modello tedesco (BGB, Buch 4 art. 1355, Familenrecht, Ehename); le persone unite nel vincolo coniugale, invece, non dispongono della medesima libertà né può dirsi che la facoltà di scelta loro concessa in ordine al cognome da attribuire ai figli, il cui esercizio è condizionato al consenso, sia espressione della concreta affermazione e riconoscimento del diritto assoluto alla identità personale, allo stato solo declamata. Con sentenza n. 286 dell’8 novembre 2016 la Corte Costituzionale, pronunciandosi sulla questione sollevata dalla Corte di Appello di Genova, ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni normative che prevedono l’automatica attribuzione del cognome paterno ai figli legittimi, in presenza della diversa volontà espressa dai genitori. In attesa di conoscere le ragioni e i motivi che hanno condotto alla declaratoria di illegittimità costituzionale, il verdetto della Corte parrebbe un trionfo sul passato. Vero è che con le sentenze n. 61/2006 e n. 145/2007 la Consulta, pur riconoscendo l’esistenza di una (implicita) dominazione di genere nella attribuzione del cognome, aveva escluso la possibilità di una modifica normativa in sede di censura costituzionale ritenendola “manipolativa” e dunque illegittima, sicché – limitatamente a questo profilo – affiora un revirement, ragionevolmente dettato dalla necessità di supplire al vuoto normativo perdurante all’esito della pronuncia CEDU nell’affaire Cusan-Fazzo. Tuttavia, se per un verso la Corte mostra di aver superato le resistenze opposte in passato, per altro verso si confermerebbe la distonìa tra il diritto vivente e i principi affermati nella precedente sentenza n. 297 del 1996, con cui il diritto al nome è stato ricompreso nel novero dei diritti della personalità. Il nome, non più mero segno distintivo ma elemento costitutivo della personalità, è un modo in cui si esplica l’esercizio del diritto e la tutela della identità personale (anagrafica, sessuale, familiare, ecc.), un diritto assoluto, non negoziabile e come tale il suo esercizio non può essere subordinato all’altrui consenso, all’altrui insindacabile discrezione, ad una volontà congiunta e indissolubile. Dunque a ben riflettere, la pronuncia della Corte spiega effetti solo apparentemente rivoluzionari poiché, in fatto, resta sostanzialmente inalterata la dominazione di genere già rilevata, oggi solo attenuata attraverso il meccanismo della “diversa volontà” in deroga all’automatismo normativo. Non sarà efficace l’obiezione, sin qui intuibile, che ravvede nel consenso uno strumento necessario a tutela della unità familiare, a sua volta espressione del canone di razionalità inteso come argine di uguaglianza che si origina nell’art. 3 Cost. per confluire, in combinato disposto, nell’art. 29 Cost. Sul punto si è già pronunciata la Corte EDU (ex plur. 1994 Burghartz/Svizzera - 2005 Unal Tekeli/Turchia - 2008 von Rehlingen/Germania) affermando che l’unità del nome non esprime l’unità della famiglia, potendo questa ben essere preservata anche nel caso in cui i coniugi (e i loro figli) non si attribuiscano un nome comune.



11. I principi di diritto dell’Unione e loro trasposizione nel nuovo diritto di famiglia: un anagramma incompiuto. Conclusioni



Applicando il principio enunciato dalla CGUE nel 2004 con la sentenza KB/Regno Unito, sono chiaramente rilevabili le condizioni discriminanti e lesive generate e amplificate dalla legge n. 76/2016. Tanto emerge non perché la detta legge attribuisca benefici e diritti solo ad alcuni soggetti che abbiano determinati requisiti o qualità, ma perché non è consentito a tutti – indistintamente – di accedervi. All’esito di queste considerazioni, è agevole pervenire alla conclusione per cui le disposizioni introdotte dalla legge 76 aprono ad una condizione di manifesta discriminazione, in aperto conflitto non solo con i principi generali e con le garanzie costituzionali affermate nel nostro ordinamento ma, ancor peggio, con quelli enunciati negli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dai quali, come si è visto, quelle disposizioni sorgono. Non può tacersi, per altro verso, che la legislazione sui diritti personalissimi e sul complessivo diritto di famiglia, concretamente attuativa della uguaglianza e della non discriminazione, non può e non deve (non dovrebbe) muovere dalla disciplina frazionata e parziale di alcune confinate situazioni soggettive, ma piuttosto dovrebbe originarsi nella elezione di una costante di civiltà giuridica in cui ogni diversa dimensione individuale possa trovare collocazione. Il diritto di famiglia così ristrutturato nelle sue nuove frontiere ricomprende spazi vuoti e lacunosi, evidenti reflussi di quel confronto osmotico di cui si è detto, essenzialmente causati da un fenomeno di cosmesi legislativa, non sempre coincidente con un’effettiva e profonda mutazione sociale. Nell’erratico e incolpevole incedere del nostro legislatore, dal quale l’UE esige allineamento normativo sul presupposto di uno speculare (quanto insussistente) allineamento della evoluzione sociale, resta imprescindibile il ruolo svolto dagli operatori del diritto di famiglia, chiamati a ricomporre e ridurre il distacco esistente tra la legge e le multiformi dimensioni della vita privata e familiare nella realtà sociale.