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Il rifiuto di sottoporsi alla prova del dna nel “nuovo” procedimento di dichiarazione giudiziale della paternità (quando l’argomento di prova rischia di trasformarsi in prova ordinaria) nota a Cass. Civ., Sez. I, 6 luglio 2015, n. 13885

autore: S. Maffei

La Cassazione torna ad occuparsi del valore probatorio da attribuire, nel giudizio per l’accertamento della paternità, al comportamento consistente nel rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini ematologiche e alla prova del DNA. La Suprema Corte, nel confermare l’indirizzo alla luce del quale detto rifiuto ben può essere valutato dal giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., si spinge oltre ed afferma che tale argomento di prova ha un valore indiziario tale da poter, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda attorea.



1. Il caso



La vicenda dalla quale trae origine la pronuncia in commento prende le mosse da una sentenza del Tribunale di Verona, con la quale è stato accertato in sede giudiziale il rapporto di paternità tra una figlia e il proprio (sino al momento della decisione presunto) padre. Quest’ultimo ha allora impugnato il provvedimento avanti alla Corte di Appello di Venezia, la quale ha tuttavia rigettato il gravame in ragione del rifiuto dallo stesso opposto a sottoporsi alle analisi ematologiche, della sua mancata prestazione dell’interrogatorio formale, oltre che alla luce delle risultanze testimoniali emerse nel giudizio di primo grado. Il presunto padre ha quindi proposto ricorso per Cassazione deducendo sostanzialmente tre motivi. Anzitutto, la violazione dell’art. 269 c.c., oltre che dell’art. 2697 c.c., laddove la Corte di Appello ha ritenuto che il rifiuto di sottoporsi agli esami ematologici costituisse un elemento rivestito di un’importanza indiziaria tale da poter, anche nell’assenza di altre prove certe, dimostrare la fondatezza della domanda della figlia. Inoltre, il ricorrente ha denunciato la violazione delle medesime norme evidenziando come nessuno dei testi escussi in prime cure sia stato in grado di confermare l’esistenza di una relazione tra costui e la madre della resistente al momento del concepimento. Infine, il presunto padre ha denunciato il vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., sostenendo che la Corte di Appello non avrebbe valutato in modo congruo né il dato che nessuna delle deposizioni testimoniali assunte avesse dimostrato l’esistenza di un legame tra lui e la madre della figlia al momento del concepimento, né il di lui contegno al momento del rifiuto di sottoporsi alle analisi. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando il proprio orientamento, ormai costante, alla luce del quale il rifiuto di sottoporsi ai prelievi ematici volti ad eseguire accertamenti sul DNA, (qualora non sia supportato da una giustificazione), costituisce un comportamento valutabile dal giudice ex art. 116, comma 2, c.p.c. Tuttavia, la decisione in rassegna da una parte supera detto indirizzo giurisprudenziale e dall’altro sembra forzare la lettera dell’art. 116, comma 2, c.p.c. In effetti, la sentenza in commento giunge ad affermare che il rifiuto in parola ha un valore indiziario così elevato da poter, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda attorea. Il provvedimento della Suprema Corte suscita interesse non soltanto perché costituisce l’occasione per riflettere su un indirizzo giurisprudenziale consolidato, ma soprattutto perché consente di puntualizzare la fondamentale attività che il giudice è tenuto ad operare qualora si renda necessario valutare il comportamento consistente nel rifiuto del preteso padre di sottoporsi alle analisi ematologiche nell’ambito dell’azione de qua.



2. L’azione per l’accertamento della paternità: cenni introduttivi



La sentenza della Suprema Corte che si annota interviene, come accennato, sul tema della prova della paternità ai sensi dell’art. 269 c.c. e dunque, più in generale, sull’azione volta a ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità (e di maternità), olim qualificata come “naturale” (e attualmente, dopo l’entrata in vigore della l. n. 219/2012 e del d.lgs. n. 154/20131, non più come tale, ma semplicemente fuori del matrimonio2), ovverosia lo strumento attraverso il quale un soggetto può richiedere, ed eventualmente ottenere, l’accertamento formale del suo status di figlio. Il tema è ricco di problematiche, anche processuali, derivanti dalle particolarità dell’ambito nel quale si sviluppa. In punto giova premettere che, come noto, il rapporto di filiazione si costituisce nel nostro sistema in maniera differente a seconda dello status matrimoniale o meno dei genitori3. In effetti, nell’ipotesi in cui questi ultimi siano coniugati, il rapporto “verticale” intercorrente tanto tra il figlio e la madre, quanto tra il figlio ed il padre si ha in via tendenzialmente automatica, ai sensi dell’art. 231 c.c.4. Diversamente, nell’ipotesi in cui il figlio nasca al di fuori del matrimonio, si rende necessaria un’ulteriore distinzione. Ed invero, anzitutto ben potrà aversi la circostanza dell’intervenuto spontaneo riconoscimento, ex art. 250 c.c.5, tanto da parte della madre quanto da parte del padre. Qualora invece difetti tale atto volontario, può rendersi necessario agire per l’accertamento giudiziale6 della maternità o della paternità, ai sensi dell’art. 269 c.c.7. Quest’ultima norma disciplina proprio l’azione per l’accertamento della paternità o della maternità, ovvero lo strumento giuridico tramite il quale è possibile ottenere, per via giudiziaria, i medesimi risultati che conseguirebbero per effetto del riconoscimento volontario. Si è dinanzi ad un’azione volta a tutelare, tra l’altro, quello che in dottrina è stato definito un “bisogno di «verità biologica»”8 di cui è titolare il figlio, anche in contrapposizione alla volontà dei propri genitori. Il principio della certezza in materia di status personali e la preminenza e delicatezza dei valori in gioco hanno condotto alla formazione di orientamenti giurisprudenziali via via più definiti, soprattutto rispetto al tema della prova nell’azione de qua.



3. La prova nel giudizio per l’accertamento della paternità



In questo alveo di fondo, la sentenza della Suprema Corte si segnala soprattutto per essere intervenuta sulla questione processuale relativa alla prova della paternità nel procedimento in parola e in particolare sul valore da attribuire al comportamento consistente nel rifiuto di sottoporsi all’esame del DNA da parte del preteso padre9. Ai sensi dell’art. 269, comma 2, c.c., come noto, “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. La norma da ultimo richiamata sancisce in altri termini, nell’ambito de quo, la generale vigenza del principio di libertà della prova. Ciò significa, anzitutto, che non è possibile ipotizzare la sussistenza di un ordine gerarchico quanto ai mezzi di prova in grado di dimostrare la paternità10 (ovvero la maternità): tutte le prove hanno pari valore secondo il tenore letterale della disposizione in parola. Inoltre, da ciò discende la possibilità per il giudice di fondare il proprio convincimento anche su prove indirette ovvero su prove indiziarie che, globalmente considerate, consentano la dimostrazione della paternità11. Al medesimo principio di libertà della prova consegue, parimenti, l’impossibilità di imporre al giudice di seguire un criterio temporale alla luce del quale un determinato tipo di prova debba essere assunto prima o dopo un altro12. L’unico limite che l’art. 269, comma 4, c.c. detta quanto alla prova della paternità concerne l’insufficienza della sola dichiarazione della madre o della sola sussistenza di rap porti sessuali tra la madre e il presunto padre al momento del concepimento. In altri termini, la dichiarazione della madre circa la paternità di un certo soggetto non è prova del rapporto di filiazione. Ciò non toglie, però, che detta dichiarazione ben possa costituire un elemento indiziario che, in un dato quadro probatorio, potrebbe anche avere una propria rilevanza13. Medesimo ragionamento può aversi quanto alla sussistenza dei rapporti sessuali. Tuttavia, ciò significa altresì che qualora chi assume di essere figlio dimostri l’esistenza di rapporti intimi tra la madre e il preteso padre al momento del concepimento, lo stesso attore sarà comunque tenuto ad allegare anche ulteriori elementi di prova a sostegno della sua domanda. Insomma, il giudice non potrebbe ritenere tout court raggiunta la prova della paternità sulla sola base dei pur provati rapporti sessuali tra la madre e il presunto padre. La Suprema Corte, con la decisione in rassegna, applica correttamente il ragionamento appena richiamato e, sulla scorta di questo, non ritiene sussistente l’invocata violazione degli artt. 269 e 2697 c.c. sollevata dal resistente. In particolare, poi, la Cassazione qualifica corretto il ragionamento della Corte di Appello di Venezia nella parte in cui quest’ultima ha affermato che il rifiuto di sottoporsi agli esami ematologici da parte del preteso padre costituisse comunque un argomento di prova a favore della pretesa attorea, nonostante mancasse la prova certa dei rapporti sessuali tra la madre e il presunto padre al momento del concepimento14. In effetti, insiste la Cassazione, dall’art. 269, comma 4, c.c. emerge “l’insufficienza, sul piano probatorio, della sussistenza di rapporti fisici tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento”.



4. La prova ematologica: sua valenza e natura di misura coercitiva processuale



Ciò posto, l’aspetto che maggiormente risulta interessante, rispetto alla sentenza in rassegna, pare proprio quello relativo alle analisi ematiche fondate sulla comparazione del DNA15dei soggetti tra i quali sussisterebbe il rapporto di filiazione. Come è noto, il ricorso alle c.d. prove ematologiche o genetiche si è andato sempre più affermando, in particolare a motivo della scientificità che le stesse rivestono e, conseguentemente, dell’elevato grado di affidabilità16. Nel nostro ordinamento processuale l’opzione in concreto adottata affinché il giudice possa apprezzare i risultati delle prove in parola è quella di ricorrere a una consulenza tecnica17, che, considerato lo strumento, può essere utilizzata su istanza di parte ovvero anche ex officio18. Le prove ematologiche, utilizzate inizialmente soltanto nei giudizi per il disconoscimento della paternità proprio al fine di escludere la paternità stessa, sono oggi pacificamente ammesse anche nella loro valenza in positivo19. In punto, non può mancare di ri scontrarsi come l’atteggiamento della giurisprudenza rispetto alle analisi in parola sia stato sempre più possibilista e di apertura nel corso degli anni. D’altronde si è dinnanzi a una tipologia di prova potenzialmente in grado di fornire al giudice le risposte necessarie quanto all’oggetto della domanda20 e con un margine di errore che è sempre più ridotto grazie ai progressi della scienza medica. Inoltre, la prova di un fatto così personale come il concepimento di un figlio è un accadimento tutt’altro che semplice da provare con ragionevole certezza, tenuto conto della probatio quasi diabolica di tale evento, laddove si escluda, appunto, la prova genetica de qua21. Tutti questi elementi hanno indubbiamente valorizzato l’utilizzo delle prove ematologiche. Di qui anche la creazione di un filone giurisprudenziale (infra) a parere del quale il rifiuto ingiustificato del preteso padre di sottoporsi alle indagini ematologiche, proprio alla luce dell’elevata affidabilità delle analisi stesse, in un quadro probatorio di un certo tipo, costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., capace di dimostrare la fondatezza della domanda attorea. In altri termini, alla luce dell’indirizzo pretorio richiamato, al quale aderisce anche la pronuncia in commento, le possibilità per il presunto padre convenuto in giudizio sono sostanzialmente due: sottoporsi all’analisi ematologica, nel qual caso il convincimento del giudice si fonderà, tra l’altro, sui risultati dell’esame stesso, ovvero rifiutare di sottoporvisi. Ed ecco la conseguenza particolare che la Suprema Corte ne ricava: in tale seconda ipotesi la domanda attorea deve considerarsi in linea tendenziale come fondata. Si tratta, insomma, di una misura coercitiva22 processuale23. In altri termini, al rifiuto ingiustificato segue “la sanzione dell’argomento di prova”24, in maniera assolutamente speculare a quanto previsto in tema di ispezione giudiziale dall’art. 118 c.p.c. In effetti, come noto, ai sensi della norma da ultimo richiamata il comportamento della parte che ingiustificatamente non consente le ispezioni ritenute indispensabili dal giudice può essere valutato ex art. 116, comma 2, del codice di rito. Ciò significa, dunque, che il contegno della parte, pur libera di rifiutare l’ordine del giudice, è potenzialmente soggetto ad una sanzione, cioè il fatto che tale comportamento sia valutabile come argomento di prova25. Si tratta, dunque, di un espediente volto a superare l’eventuale rifiuto del soggetto, in un caso a consentire all’ispezione giudiziale, nell’altro all’esame del DNA. In questo senso, se il rifiuto di sottoporsi alle analisi ematiche può tradursi in un argomento di prova quanto al rapporto di filiazione, ciò significa prevedere un meccanismo volto a spingere il convenuto a sottoporsi alle analisi stesse, cioè una misura coercitiva processuale.



5. Il rifiuto del preteso padre di sottoporsi alle prove ematologiche



In ordine al comportamento consistente nel rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematici nell’ambito dell’azione per l’accertamento della paternità, come si è accennato, si è assistito nel tempo alla creazione di un orientamento giurisprudenziale ormai fermo: detto contegno, in un quadro probatorio di un certo tipo, costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c., capace di dimostrare la fondatezza della domanda attorea26. D’altronde, il rifiuto di sottoporsi ad un esame scientifico tendenzialmente capace di affermare o di negare la paternità non può esser valutato dal giudice alla stregua di qualunque altro contegno processuale27. Tuttavia, non può dimenticarsi che la medesima Cassazione, da quando ha ammesso per la prima volta la valenza in positivo della prova in parola ha altresì evidenziato la necessità di una sua valutazione alla luce del quadro probatorio globale28. In effetti, il dato che dette analisi, per quanto estremamente affidabili, restano soggette ad un margine d’errore rende necessaria una valorizzazione del ruolo del giudice che si traduca anzitutto nella ponderazione di tutti i dati probatori, anche extrascientifici, acquisiti al processo, e, secondariamente, nell’attività di motivazione29. Ciò significa, dunque, che le analisi ematologiche (e il rifiuto di sottoporvisi) costituiscono nient’altro che un tassello del puzzle che si tenta di ricostruire; si tratta quindi di una parte che, per quanto indubbiamente rilevante e significativa, non può tuttavia avere un senso ex se ma deve essere rapportata e letta alla luce del complessivo quadro probatorio. Senza considerare, inoltre, che l’attività di ponderazione delle varie prove in ordine all’oggetto della domanda deve puntualmente emergere dalla motivazione della sentenza. A ciò si aggiunga che proprio il richiamato elemento di coercizione rende necessaria una riflessione circa la fondamentale opera di bilanciamento che è tenuto a compiere il giudice30. In effetti, quando ci si confronta con il tema della prova nel procedimento de quo non può dimenticarsi che vi sono due (fondamentali) diritti contrapposti. Da una parte quello del figlio di conoscere la verità quanto alle proprie origini, e dall’altra quello del preteso padre alla propria libertà personale31. Proprio questa contrapposizione consente di comprendere l’importanza della valutazione che il giudice è tenuto a compiere, caso per caso, ponendo in relazione l’eventuale rifiuto del convenuto con il quadro probatorio complessivo, oltre che con la condotta globalmente tenuta nel corso del processo dal preteso padre32. La sentenza in commento si pone in linea con l’orientamento pretorio alla luce del quale il rifiuto del ricorrente di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c. Se il principio espresso da questo ormai costante indirizzo pare condivisibile, dal momento che è necessario che l’ordinamento predisponga qualche tipo di conseguenza negativa in capo a colui il quale si renda autore del rifiuto ingiustificato33, tuttavia non deve giungersi sino a creare un meccanismo che faccia seguire al rifiuto di sottoporsi alle analisi la prova sic et simpliciter della paternità34. In altri termini, non pare possibile arrivare a far corrispondere in maniera automatica al rifiuto la prova della paternità così, peraltro, sminuendo il ruolo dell’organo giudicante. In questo senso, pare censurabile il dato che la pronuncia in commento, nel richiamare detto indirizzo, affermi, senza ulteriori specificazioni che “il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche (..) costituisce un comportamento valutabile (..) ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da potere, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda”. Ciò significa, infatti, arrivare a forzare la lettera dell’art. 116, comma 2, c.p.c. dal momento che, come noto, la norma si riferisce ad “argomenti di prova” e non a prove vere e proprie. In altri termini, la sentenza in rassegna giunge ad affermare che il comportamento (omissivo) del convenuto nel corso del processo, valutabile ex art. 116, comma 2, c.p.c., costituisce “da solo” il fondamento della paternità, contrariamente ai principi generali in materia di argomento di prova35. In effetti, come noto, non è possibile per il giudice giungere ad affermare la sussistenza di un fatto sulla sola base di un argomento di prova che non è, appunto, una prova ordinaria. Deve tuttavia rilevarsi che la Cassazione, dopo aver utilizzato l’infelice inciso “anche da solo”, non manca di richiamare gli elementi indiziari e presuntivi emersi nel corso del giudizio precedente. In particolare, la Corte fa riferimento al dato che, nei precedenti gradi di giudizio, i testi avevano confermato l’esistenza di un fidanzamento tra la madre della resistente ed il preteso padre, oltre al fatto che dalla gravidanza della donna erano sorte discussioni in seno alla famiglia del ricorrente. Insomma, nel caso di specie non è stato il rifiuto di sottoporsi alle analisi ematologiche a consentire “anche da solo” di ritenere provata la pretesa attorea; ciò che ha portato il giudicante a rigettare il ricorso e a ritenere sussistente la paternità è una valutazione globale di tutti gli elementi emersi nel corso del processo. Sotto questo profilo, pertanto, nonostante le critiche alla formula utilizzata, la pronuncia della Suprema Corte pare non dimenticare il ruolo dell’organo giudicante che si è tentato di valorizzare. Tuttavia, sarebbe stata preferibile una maggiore chiarezza quanto all’estensione dell’indirizzo pretorio ulteriormente confermato dalla decisione in rassegna. Infine, pare necessario compiere almeno un rapido cenno al richiamato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. come riformulato dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012 convertito nella L. N. 134 del 201236. Si tratta della norma che disciplina il vizio relativo all’omesso esame di un fatto oggetto di discussione tra le parti ed avente carattere decisivo, cioè capace di modificare l’esito della controversia qualora sia esaminato. Nel caso di specie il ricorrente ha denunciato il vizio de quo in ragione del fatto che, a suo modo di vedere, la Corte di Appello non avrebbe valutato in modo congruo il suo rifiuto di sottoporsi alle analisi ematiche, né quanto emerso dalle deposizioni testimoniali. La Suprema Corte nella pronuncia in commento, dopo aver ricordato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé il vizio richiamato purché il giudice abbia comunque preso in considerazione il fatto storico37, chiarisce che qui si tratta di una censura infondata dal momento che la stessa si riferisce esclusivamente all’insufficiente considerazione delle risultanze istruttorie. Pertanto, la Suprema Corte respinti i tre motivi del ricorso lo rigetta integralmente.