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Le disposizioni processuali dettate per l’unione civile dalla legge 20 maggio 2016, n. 76. Opinioni a confronto

autore: G. Savi

L’unica disposizione (art. 1, comma 251) tesa a regolare in via generale i profili processuali delle varie azioni a tutela della posizione della parte dell’unione civile si staglia in assoluto tra le più complesse della legge, mettendo le aule di Giustizia nella difficoltà di ricostruirne in concreto i tratti caratterizzanti e distintivi, proprio nel momento in cui i diritti si realizzano. Un primo orientamento normativo porta ad evidenziare come la disposizione recepisca vari istituti di diritto processuale civile, necessariamente rilevanti una volta fissato il criterio dello scioglimento del vincolo, in primo luogo secondo le previsioni della legge sul divorzio; vengono inoltre integralmente recepite e dunque se ne impone l’applicazione, salvo il criterio di mera compatibilità, tutte le previsioni dei procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone (artt. da 706 a 742 bis c.p.c.); infine v’è il richiamo delle due norme che regolano le procedure della negoziazione assistita. Il dettato legislativo si limita stucchevolmente a tanto: si percepisce con immediatezza il senso di scarsa consapevolezza se non di evidente confusione. Il primo richiamo segue le previsioni del comma 23: sciogliendosi il rapporto oltre che per la morte della parte, anche presunta (comma 22), in primo luogo secondo alcune delle specifiche previsioni della legge sul divorzio, a fronte del dato sostanziale che regge l’unione civile, consequenziale era il richiamo dell’art. 4, sulle forme dell’incedere processuale; così pure dell’art. 5 che elenca i provvedimenti del tribunale adito, fatta esclusione della parte che si occupa del cognome della donna (commi II, III e IV), e degli artt. 8, 9 e 10. Non era scontata invece l’estensione delle previsioni di cui agli artt. 9 bis, 12 bis, 12 quater, 12 quinquies e 12 sexies, mentre l’assenza di prole comune2 non poteva che escludere il richiamo degli artt. 6 e 7; ad ogni modo, la scelta legislativa appare coerente con il criterio solidaristico alla base dei diritti e dei doveri che assumono le parti dell’unione civile con la costituzione del vincolo affettivo di natura familiare. Quanto alla questione del cognome, secondo il comma 10, il cognome identitario comune è ammesso soltanto “per la durata” del rapporto, cioè sino al momento temporale in cui non sopravviene efficacemente il suo scioglimento. Dati per scontati tutti i profili del giudizio divorzile, nelle sue varie fasi, atteso il recepimento indicato, quindi, parimenti applicabili, davvero gravoso è invece individuare il senso e gli effetti del recepimento dell’intero secondo titolo, del libro quarto, del codice di rito. In questo titolo si disciplinano i “procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone”, sino alle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio. L’insipienza legislativa per le questioni processuali, aspetto concreto che invero costituisce la premessa minima ed indispensabile per una efficiente e vera amministrazione della Giustizia, risulta ancora una volta esasperante per il Foro. Il Potere giudiziario è chiamato nei fatti ad una supplenza interpretativa destinata ad assumere giocoforza il ruolo di autentica e reale legislazione, con tutto quel che ne consegue, anche in termini di pericoloso arbitrio sulle regole essenziali, cioè, sulle garanzie, dell’incedere processuale nella tutela dei diritti, tanto più di quelli primari della persona (si pensi solo al fenomeno dei diversi apprezzamenti e delle diverse impostazioni in rito a “macchia di leopardo” sul territorio); il ceto forense d’altro lato, ancora una volta, esposto all’incertezza più estrema e, così, ad assumere un ruolo irragionevole e frustrante, volgente più a quello di manzoniana memoria. Mentre il richiamo delle disposizioni dei capi II (dell’interdizione e dell’inabilitazione e dell’amministratore di sostegno), III (disposizioni relative all’assenza e alla dichiarazione di morte presunta), IV (disposizioni relative ai minori, agli interdetti e agli inabilitati), V (dei rapporti patrimoniali tra i coniugi) e V bis (degli ordini di protezione contro gli abusi familiari), non presentano particolari problematiche, trattandosi di norme che regolano l’ordine processuale di azioni che sono esattamente prefigurate anche nell’unione civile tra persone dello stesso sesso, salvi peculiari criteri fissati in via di eccezione soltanto per questo istituto, si profila particolarmente gravoso comprendere quale sia il senso autentico del richiamo recettizio del capo I (della separazione personale dei coniugi) e del capo VI (disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio). Procediamo con ordine. Per compiutezza in ordine ai capi appena menzionati, il comma 15 contiene previsioni afferenti l’interdizione, l’inabilitazione ed il sostegno, con ciò significando che l’apparato delle disposizioni rituali di tali procedimenti è coerentemente rinvenibile nella sua sede propria e, cioè, da un lato negli artt. da 712 a 720 bis, c.p.c. (capo II) e dall’altro negli artt. 732, 733 e 734 c.p.c. (capo IV). Parimenti dai commi 5, 6 e 22, emerge la rilevanza dell’eventuale condizione dell’assente e gli effetti della dichiarazione di morte presunta, cosicché il rito di questi procedimenti era anche soltanto implicitamente rinvenibile nella sua sede propria codicistica di cui agli artt. da 721 a 731 c.p.c. (capo III). Al comma 14 invece si analizza la previsione afferente gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, che in realtà già finiva per contenere anch’essa le norme di rito proprie di questo procedimento civile, fissate nell’art. 736 bis c.p.c. (capo V bis). Poiché il capo V del codice di rito, costituito dagli artt. 735 e 736, si ritiene tacitamente abrogato ai sensi degli artt. da 48 a 54 della l. 19 maggio 1975 n. 151, resta unicamente da interrogarsi sul significato da dare al richiamo delle disposizioni sulla separazione personale (dei coniugi) e delle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio. Ancora una precisazione prima di affrontare entrambe tali questioni. All’apparenza il legislatore, disciplinando lo scioglimento del vincolo con puntuali previsioni, sembra essersi dimenticato delle azioni di status afferenti la stessa validità del vincolo dell’unione civile (commi 4, 5, 6, 7 e 8), ma i richiami normativi contenuti in tale apparato dispositivo non fanno dubitare che valgano per tali azioni di impugnazione (inesistenza, invalidità, nullità, annullabilità), senz’altro le stesse regole in rito prefigurate pacificamente nell’istituto matrimoniale e cioè, quello di ordinaria cognizione, secondo la competenza ex art. 9, comma II, c.p.c., quali azioni di stato, con l’intervento del pubblico ministero (art. 70 c.p.c), riservate pertanto all’organo collegiale (art. 50 bis c.p.c.); in sostanza, non v’è difformità rispetto al regime del coniugio con razionale identità del rito. Tornando alle due questioni processuali di più gravosa difficoltà di soluzione, esse possono incarnarsi mediante due efficaci quesiti, entrambi a forte impatto sistematico e pratico:

a) le parti dell’unione civile possono anche accedere ad un regime di separazione personale ex artt. 706 - 711 c.p.c. ?

b) il rito delle controversie tra le parti dell’unione civile, diverse da quelle di status o di regolamentazione della crisi del rapporto, ove il domandare trova titolo nel vincolo affettivo/familiare in parola, segue la disciplina dell’ordinaria cognizione oppure è unicamente quello dei procedimenti in camera di consiglio ex artt. 737 - 742 bis c.p.c., che il legislatore ha inteso prefigurare ?

Lo sforzo interpretativo quanto al punto a) non può prescindere dal quadro di riferimento complessivo. La legge indica con minuziosa precisione le cause di scioglimento del vincolo dell’unione civile tra persone dello stesso sesso: la morte, compresa quella presunta, lo scioglimento che abbiamo sopra definito “divorzile” in quanto mutuato dalla l. div., l’espressione della volontà delle parti allo scioglimento, il mutamento di sesso (comma 26); il peculiare scioglimento previsto dal comma 24, che possiamo definire condizionato unicamente alla volontà di una od entrambe le parti dell’unione civile, consente a queste, a differenza dei coniugi, di poter accedere direttamente al divorzio, senza necessariamente percorrere la nota fase prodromica, costituita dallo status di separazione personale giudizialmente riscontrato e sancito (anche soltanto come omologazione del mero consenso). Questa prima riflessione potrebbe condurre ad inferirne che allora qui la separazione personale non ha alcuna funzione e pertanto non sarebbe ammissibile, nonostante il richiamo così chiaro contenuto nel comma 25 in commento. Una tale conclusione destinata a poggiare unicamente sul criterio di (in)compatibilità, invero inteso come criterio di esclusione del richiamo (“si applicano”). Ma questa conclusione appare insoddisfacente se solo si considera come un richiamo normativo così evidente finisca per non avere alcuna valenza; come se il legislatore fosse allora caduto in vistoso percorso erratico, ci si passi l’espressione, persino buffo. Soccorrono infatti i noti principi generali secondo cui una norma di legge non può certo essere interpretata come se non abbia alcun significato e così liberamente “abrogabile” da chi è solo chiamato ad applicarla; in una parola, non è consentito all’interprete giungere ad una conclusione di repulsa, chiamato invece doverosamente a dare un significato positivo al comando legislativo. Si tratta perciò di individuare il suo possibile e ragionevole significato, anche costituzionalmente orientato. Intanto, una questione logica: il fatto che il divorzio sia accessibile direttamente (ma vedremo che così propriamente non è) non significa affatto che le parti dell’unione civile non possano accedere alla condizione di parti separate, ove non intendano domandare direttamente lo scioglimento del rapporto ed allo stesso tempo intendano vivere in separatezza di vita nel quotidiano; le due condizioni sono all’evidenza non sovrapponibili. Il principio di non discriminazione3 desumibile a piene mani dalla legge (in principio chiamata a porre riparo alla rilevata discriminazione delle unioni omoaffettive), non foss’altro che in ragione della clausola di chiusura a garanzia delle tutele di cui al comma 20, porta a considerare che anche l’unione civile in buona sostanza vede una salvaguardia a favore della conservazione del rapporto affettivo/familiare una volta costituito; e questa riflessione corrobora l’opzione che intravede la possibilità di ammettere l’applicazione dell’istituto della separazione di cui capo I, titolo II, libro IV, del codice di rito. Si dirà, ma la separazione è momento “ingombrante” anche nel coniugio, tanto che il periodo temporale il cui decorso è necessario per la proposizione della domanda divorzile è stato ridotto proprio di recente con la l. 6 maggio 2015 n. 55, cd. sul divorzio breve; e si potrà magari anche argomentare che nessuno nei fatti domanderà la separazione, reputando questo stadio intermedio non conveniente ovvero che ciò risponde oramai ad un diffuso sentire sociale. Entrambe queste argomentazioni però “significano troppo”, non potendo l’analisi del giurista sovrapporsi alla visione casistica, fenomenologica o persino probabilistica, come se la scienza giuridica sia da ridursi a mera analisi sociologica o peggio ancora psico-sociologica. D’altro canto, se anche le parti dell’unione civile sono ammesse ad accedere all’istituto della separazione personale ciò non contrasta di certo con un qualche principio o norma di ordine pubblico, né produce elementi pregiudizievoli alla collettività e tantomeno alle parti, le quali in ogni momento possono superare questo status, domandando lo scioglimento del rapporto, senza alcun pregiudizio, non enumerandosi tra i suoi presupposti un periodo minimo di ininterrotta e preventiva separazione personale, attestata dalla pronuncia di status, giudiziale o per mero consenso. Ulteriori argomentazioni soccorrono tale soluzione. La legge in commento non ha escluso l’ipotesi, anzi, in altro momento della regolamentazione positiva presuppone espressamente uno stato di separazione, autorizzato dall’autorità giudiziaria che ne fissa le condizioni, anche tra le parti dell’unione civile; se si pone attenzione al comma 5, ci si avvede che ivi si richiama appunto l’art. 126 c.c.; anche il comma 21, che richiama integralmente le norme successorie in favore del coniuge, contiene previsioni afferenti la successione del coniuge in status separato; eppure il richiamo, puntuale e specifico, non fa distinzioni di sorta; a dire il vero, univocamente, il comma 13, nel richiamare l’applicazione delle disposizioni di cui alla sezione III, capo VI, titolo VI, libro primo, c.c., evoca l’applicazione, tra l’altro, dell’art. 191 c.c., che espressamente prefigura la separazione personale quale causa di scioglimento del regime patrimoniale della comunione dei beni, cui è soggetto il rapporto in via di principio, seppur derogabile. Ma non basta e la riflessione che segue può di per sé risultare dirimente. Al comma 24 si prevede, come detto, che l’unione civile si scioglie per effetto della manifestazione di volontà anche di una soltanto delle parti, quale fattispecie specifica all’istituto stesso; la parte che ha dichiarato una tale determinazione di volontà deve però attendere il decorso di un periodo temporale di almeno tre mesi per poter validamente proporre la domanda giudiziale basata su tale condizione; questo “limbo temporale” può essere interrotto da una “riconciliazione” e comunque può perdurare nel tempo non essendo prevista una “decadenza”, cioè potendo permanere sine die, anche solo per il fatto che la parte, magari interrompendo di fatto la relazione di convivenza nel quotidiano (l’allontanamento è esattamente prefigurato dal comma 19, mediante l’espresso richiamo dell’art. 146 c.c.), trascuri di proporre poi la domanda di scioglimento; questa complessa situazione del rapporto familiare in crisi, può determinare all’evidenza la necessità di regolamentazione di quel regime di vita, pur se temporaneo; esigenza che a ben riflettere ricorre anche nell’ipotesi in cui sussista ritardo nella fissazione dell’udienza di trattazione del ricorso per scioglimento del rapporto, che in alcuni tribunali viene in concreto fissata anche oltre l’anno. Agevole pertanto descriverne l’ipotesi di maggior bisogno di tutela: la parte dell’unione civile che non ha inteso condividere la volontà di scioglimento manifestata dall’altra parte, si trova nella condizione di poter soltanto promuovere lo scioglimento secondo il comma 24, pur non volendo dissolvere il vincolo affettivo/familiare costituito, la quale evenienza, se si considera il favor alla stabilità del rapporto che si coglie nell’intera legge, appare davvero inaccettabile ed obiettivamente discriminatoria. Ammettere che la stessa parte possa invece adire il giudizio di separazione personale consente di cogliere positivamente la ragione di quel richiamo legislativo, allora corretto ed avveduto. Si dirà, ma il richiamo all’istituto processuale della separazione tra coniugi (artt. da 706 a 711 c.p.c.), non importa per ciò solo il richiamo delle norme sostanziali dettate nel c.c.; questo argomento appare in tutta la sua fragilità se solo si considera come nel momento in cui si richiama l’istituto a tutela di un diritto, ciò comporta ontologicamente il richiamo del diritto sostanziale stesso; inoltre, in sintonia a quanto diffusamente si verifica in materia familiare, con strettissimo intreccio tra sostanza e processo4, nel dettato normativo che presiede all’istituto processuale della separazione personale dei coniugi, si confondono, integrandosi e sovrapponendosi, i contenuti processuali a quelli sostanziali, anche per effetto dei richiami espressi rinvenibili nelle disposizioni processuali; un esempio su tutti: la domanda ex art. 711 c.p.c. è espressamente ed inscindibilmente legata al disposto normativo sostanziale. Ciò che perciò appare ancora dirimente è la riflessione secondo cui l’ammissione delle parti dell’unione civile alla fase processuale “separativa”, seppur priva di ulteriore rilievo quanto allo scioglimento del rapporto (quindi, riferibile a scelta delle tutele tra le diverse prefigurate dall’ordinamento), che consenta di disciplinare la separatezza di vita prodottasi, per l’ipotesi che nessuno intenda procedere allo scioglimento definitivo, non contrasta con alcun dettato esplicito od implicito della stessa legge ed è con essa compatibile, anche quanto ad esigenza, appunto, di effettiva tutela nella crisi del rapporto. Il criterio di compatibilità infatti presuppone che venga espunto ciò che non è espressamente ammesso o che si trovi in contrasto insanabile con altre norme. Venendo alla seconda questione, riassunta dall’interrogativo dinanzi formulato, sub b), e cioè, di quale possa essere il rito che possiamo definire “residuale”, per tutte le altre controversie che dovessero insorgere nel corso del rapporto retto dall’unione civile, diverse dal regolamento della sua crisi, giova premettere intanto come il richiamo delle disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio appare giustificato per le specifiche sedi in cui vi è rinvio a tali norme, ovvero a quelle specifiche questioni che qua e là emergono, in buona sostanza come sede di volontaria giurisdizione, in cui quell’incedere processuale è già applicato siccome connaturato e previsto. Il richiamo pertanto non sembra significativo per poterne validamente inferirne il principio secondo cui il rito camerale, pur “adattato” ai diritti soggettivi che qui ci occupano, è quello da percorrersi in ogni contenzioso residuale. Questa conclusione porta invero ad interrogarsi meglio, a monte della questione; infatti, il legislatore ha cura di prefigurare i richiami processuali in commento avendo precipuamente di mira il governo della fase di crisi del rapporto, come chiaramente dimostrano la collocazione del comma e l’accostamento dei richiami operati, univocamente afferenti tali evenienze; ma non basta; se ben si riflette, ciò risulta in sintonia con il sistema che vige nell’ambito della famiglia fondata sul matrimonio, ove identicamente la speciale tutela giurisdizionale differenziata (che esige la materia dei diritti della persona coinvolti nei rapporti di natura familiare), è riservata alle fasi di crisi della relazione affettiva, di dissolvimento della convivenza e di scioglimento del rapporto, ovvero alle modificazioni e revisioni che l’evolversi delle condizioni nel tempo impone. In sostanza, proprio in virtù del principio di uguaglianza e di garanzia di una effettiva tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi coinvolti (artt. 3, 24 e 111 Cost.), reputata meritevole di tale speciale garanzia, il legislatore ha usato lo stesso “metro”, tenendo l’ordinamento positivo su linea di fondo identicamente ispirata. Per rendersi meglio conto dell’esattezza di tanto, un esempio su tutti: l’eventuale domanda di tutela al rispetto degli obblighi che comporta l’unione civile, proposta nei confronti della parte, ad istanza di quella che non voglia mettere in discussione il rapporto, deve - se esatta l’indicata soluzione - percorrersi secondo il rito dell’ordinaria cognizione con tutte le formalità di massima garanzia del procedere che comporta. L’ipotesi si è identicamente affacciata nel coniugio seppur con una casistica davvero sporadica5, ragione per cui non v’è da stupirsi che anche la parte dell’unione civile, ove voglia rivendicare il giusto contributo economico ai bisogni comuni, cui l’altra parte si sottrae, senza con ciò domandare lo scioglimento del rapporto, dovrà del pari domandare la giusta tutela in sede ordinaria; si potrà obiettare, che questo comporta frustrazione di quella giusta esigenza di una speciale tutela giurisdizionale differenziata, soprattutto in via anticipatoria, ma la scelta del legislatore è univoca; ad ogni modo, giova rammentare che in materia processuale la discrezionalità delle scelte legislative è sostanzialmente insindacabile innanzi alla Corte delle leggi, salvo lo strettissimo spiraglio della manifesta irragionevolezza. Il significato del richiamo normativo in discussione non sembra per ciò avallare la seconda soluzione contenuta nell’interrogativo sopra formulato sub b), seppure in materia di rapporti familiari la soluzione processuale, cd. cameral-contenziosa, è quella che il legislatore ha mostrato di prediligere, per la semplicità delle forme e la prontezza delle soluzioni, anche per la tutela dei figli. La soluzione ermeneutica porta quindi ad affermare come ogni contenzioso residuale che trovi titolo nell’unione civile tra persone dello stesso sesso, sia soggetto alla disciplina del processo ordinario a cognizione piena, comprensivo della sua variante sommaria ex artt. 702 bis - 702 quater c.p.c., ma per le sole ipotesi riservate all’organo monocratico; sede alla quale, si badi, può giungersi, ove ne ricorrano le condizioni, anche attraverso misure cautelari (che possono comunque domandarsi anche nel corso del processo), secondo la disciplina uniforme ex artt. 669 bis ss. c.p.c. Da ultimo v’è da evidenziare il significato attribuibile al richiamo delle norme procedurali di cui all’indicato d. l. n. 132/2014, convertito con la l. n. 162/2014, che disciplinano la soluzione per negoziazione assistita delle controversie di separazione e divorzio, nonché delle eventuali sedi successive correlate (art. 6), come pure la semplificazione dei procedimenti (art. 12). Come noto, queste disposizioni si inseriscono nel più ampio disegno di degiurisdizionalizzazione delle controversie in atto nel nostro ordinamento, fatto evidente dal titolo della norma di legge, “Eliminazione dell’arretrato e trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti civili pendenti”, cui segue la catalogazione delle ipotesi in tre distinti capi. La negoziazione assistita, di cui si occupa l’art. 6, viene pertanto ad assumere, proprio per effetto di questo richiamo normativo estensivo, la valenza di istituto designato in via generale alle cause di famiglia e non soltanto per la separazione od il divorzio tra coniugi. Si sottolinea peraltro, in linea con quanto sopra ricostruito a proposito dell’accesso delle parti dell’unione civile ad una condizione di separatezza di vita regolamentata formalmente, che il richiamo, come quello dell’art. 12, si riferisce appunto indifferentemente a separazione e divorzio. Richiamato lo schema procedimentale della negoziazione assistita6, la cui essenza risiede nell’opzione volontaria delle parti, nell’assistenza obbligatoria di avvocati (il ceto forense è stato reputato professionalmente meglio accreditato in materia familiare) che ne garantiscono la rispondenza alle norme imperative ed all’ordine pubblico e ne autenticano il risultato, nonché nell’ulteriore garanzia del visto “nulla osta” o dell’autorizzazione a seconda della presenza (ove l’accordo è “autorizzato” siccome rispondente all’interesse dei figli) o meno di prole7, da parte dell’organo requirente, giova sottolineare come l’accordo raggiunto a seguito della convenzione, “produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio”. Desta invece più d’una perplessità il richiamo dell’art. 12, inserito nel capo III, della legge in parola, intitolato “Ulteriori disposizioni per la semplificazione dei procedimenti di separazione personale e di divorzio”, soprattutto in relazione all’ipotesi di scioglimento, peculiare all’unione civile, di cui al comma 24; qui la stessa autorità di stato civile, presiede sia alla formazione della condizione di scioglimento (dichiarazione di volontà della/e parte/i), che all’ulteriore dichiarazione ex art. 12, che appare persino sovrapporsi identicamente, con irragionevolezza manifesta, come quella ultima confermativa a distanza di ulteriori trenta giorni; l’intricata successione di tali adempimenti merita senz’altro una rivisitazione armonica con peculiare riguardo all’unione civile, proprio per il sovrapporsi delle due norme (il comma 24 e l’art. 12).