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Prime riflessioni sulla nuova legge Cirinnà: unioni civili e convivenze di fatto

autore: A. Cordiano

SOMMARIO: 1. Il quadro normativo precedente; 2. La scelta del modello normativo di assimilazione atipica; 3. La tecnica normativa utilizzata; 4. Istituti nuovi; 5. Alcune riflessioni critiche.



1. La disciplina sulle unioni omoaffettive, la legge n. 76 del 20 maggio 2016, dopo innumerevoli progetti di legge succedutisi nel tempo, è stata finalmente congedata, a seguito di un iter parlamentare travagliato e un acceso scontro politico, che ha condotto in entrambe le Camere ad aggirare la discussione sul merito del testo normativo, per giungere alla definitiva approvazione mediante l’uso del voto di fiducia. Posta l’obiettiva difficoltà di commentare un testo normativo appena emanato, anche a fronte dell’assenza di pronunce giurisprudenziali, di un numero consistente di commenti dottrinali e senza quel fisiologico periodo di assestamento che segue all’approvazione di una legge, la prudenza che muove le osservazioni che verranno è dettata anche e particolarmente dalla già esposta premessa: la legge, si è detto, è frutto di un percorso politico difficile ed è essa stessa l’esito del compromesso politico, in ragione - sostanzialmente - della delicatezza della materie coinvolte. La disciplina, pertanto, sconta alcune fragilità evidenti sin d’ora, prima ancora di incontrare il vaglio applicativo. Per comprendere meglio il senso di queste fragilità e l’intero impianto normativo, è bene procedere con alcune premesse. La prima di queste premesse è l’evidente e più volte ribadito superamento del modello familiare tradizionale, a favore di una articolata e composita molteplicità di situazioni interpersonali: indefinibili, soggette a modifica zioni continue, talvolta evanescenti, delle quali la convivenza di fatto e i legami omoaffettivi sono certamente i fenomeni socialmente più rilevanti e tradizionalmente più studiati1 .

Anche nel panorama sovranazionale è possibile scorgere questa diversificazione del modello familiare tipico a favore di nuove tipologie di legami: in Europa e nel mondo si realizzano esperienze di riconoscimento, numerose ed eterogenee, attraverso percorsi di “parificazione” fra modello coniugale tipico e relazioni omosessuali, mediante l’estensione a queste ultime del matrimonio, o di “assimilazione”, ottenuta con l’istituzione delle così dette unioni registrate (così in Germania) o con l’utilizzo dello strumento contrattuale (così in Francia). In altre esperienze ancora, come sin ad oggi in Italia, la scelta della “diversificazione” ha condotto a distinguere nettamente il modello matrimoniale dalle convivenze more uxorio dalle coppie dello stesso sesso, lasciando queste ultime prive di una regolamentazione. Analoga eterogeneità è presente sotto il profilo della filiazione, dal momento che, a fronte di Paesi, come il Regno Unito, che consentono l’accesso agli strumenti di genitorialità sociale (surrogacy, adozione per coppie omosessuali e single, second parent adoption, procreazione medicalmente assistita ad accesso libero), ve ne sono altri, come la Germania, nei quali è consentita solamente la second parent adoption, e altri ancora nei quali vi è una chiusura assoluta nei riguardo di forme familiari non coniugali (come per l’Italia). Infine, è doveroso premettere che la novella si inserisce in un panorama interno del tutto peculiare, nel quale l’ordinamento giuridico, carente di una disciplina organica sulle convivenze non fondate sul matrimonio si è adattato, mettendo in atto dispositivi normativi e paranormativi allo scopo di rispondere alle ragionevoli istanze di riconoscimento e tutela. Sono noti i numerosi indici normativi e la consistente prassi applicativa della giurisprudenza, che consente di sostenere un certo grado di autonomia concettuale sicuramente alla famiglia di fatto, ma per alcuni aspetti anche alle relazioni omoaffettive. Di là dai classici temi concernenti l’applicazione analogica delle norme relative alla famiglia legittima (artt. 143, 145 147, 148 c.c.) e le questioni connesse alla classificazione delle elargizioni patrimo niali fra conviventi2, sono noti i provvedi menti normativi che variamente riconoscono la famiglia di fatto: l’art. 342 bis e s. e l’art. 404 e ss. del codice civile, l’art. 23, secondo comma, l. 91/1999 in tema di donazione di organi post mortem, l’art. 93, secondo comma, d.p.r. 285/1990 sul sepolcro familiare, nelle quali il convivente è, a diverso titolo, menzionato nell’ambito soggettivo di applicazione delle discipline indicate. Nella normativa sulla procreazione medicalmente assistita, l’ambito soggettivo comprende anche la famiglia di fatto: la scelta operata nel 2004 appare dissonante con quanto disposto dalla disciplina che modifica la legge 183/1984, che ha optato per la sola coppia coniugata, utilizzando lo stratagemma della convivenza triennale precedente alla celebrazione del matrimonio. In questo senso, non si può che accogliere con favore l’estensione compiuta dal legislatore del 2006, che ha introdotto la disciplina di modifica dell’affidamento della prole in occasione della crisi a tutta la patologia familiare, compresa la crisi della famiglia di fatto. In ambiti a latere della materia familiaristica, ma altrettanto significative sono le ipotesi previste dall’art. 17, l. 17 febbraio 1992, n. 179, in materia di edilizia popolare, che consente al convivente di subentrare al partner nella qualità di socio o assegnatario; dall’art. 2, d.m. 6 agosto 1993, n. 574, che consente al convivente del personale appartenente ai ruoli della Polizia di Stato di fruire degli alloggi di servizio; dall’art. 70, d.lgs. 15 novembre 1993, n. 507, che, per la determinazione dell’importo dovuto per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, richiede l’indicazione delle persone componenti del nucleo familiare o della “convivenza”; dall’art. 6, d.m. 29 marzo 1994, che individua fra i soggetti legittimati a ricevere il sussidio previsto in favore degli eredi del notaio deceduto in esercizio anche il convivente; infine, dall’art. 13, secondo comma, d.p.r. 28 luglio 1999, n. 510, che menziona il convivente fra i destinatari dei benefici in favore dei superstiti di dipendenti pubblici vittime di azioni terroristiche3. La giurisprudenza hanno affidato all’applicazione analogica il compito di avvicinare le due tipologie familiari, quella coniugale e quella non fondata sul matrimonio. Con la sentenza n. 6 del 1977, la Corte costituzionale ha imposto al legislatore il riconoscimento delle convivenze di fatto ai fini dell’estensione delle garanzie del processo penale: l’art. 199 c.p.p. si applica, limitatamente ai fatti appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale, anche a colui che, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con esso4. Deve, peraltro, essere segnalata una nota pronuncia di merito, che ha equiparato, quale presupposto della facoltà di astensione dal testimoniare, la convivenza tra soggetti eterosessuali a quella tra soggetti omosessuali, ravvisando i medesimi requisiti della relazione affettiva stabile e del reciproco riconoscimento della collaborazione e dell’assistenza morale e materiale, insieme alla situazione psicologica determinata dal vincolo affettivo, a fondamento la disposizione dell’art. 199 c.p.p.5 La giurisprudenza ha, poi, assimilato i legami anche in tema di successione nel contratto di locazione del convivente superstite6 e di divisione in pari quote della somma depositata in conto corrente cointestato, in un’ipotesi dove il giudice di prime cure ha utilizzato argomentazioni analoghe a quelle svolte in tema di scioglimento della comunione legale fra coniugi con riguardo al contributo fornito dal lavoro casalingo della convivente, riecheggiando il dispositivo di cui al terzo comma dell’art. 143 c.c.7 . Sono note, infine, e condivisibili le pronunce in tema di risarcimento del danno morale subiettivo per la perdita del partner8.

Di segno opposto, quelle pronunce che negano siffatta estensione, respingendo l’applicazione ai conviventi della sospensione del termine prescrizionale fra conviventi, sancita fra coniugi della norma di cui all’art. 2941, primo comma, n. 19, ed escludendo il ricongiungimento familiare al convivente dello stesso sesso10. Mentre, rispetto ad un primo orientamento - che ha negato, in una fattispecie di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, qualsivoglia pretesa al godimento dell’immobile destinato alla convivenza, sancendo in capo al convivente proprietario esclusivo dell’immobile il diritto di ottenerne il rilascio da parte dell’altro convivente11 -, è seguito un significativo revirement dalla Corte di legittimità a favore del riconoscimento, in capo al convivente di fatto, della qualifica di detentore qualificato e della conseguente tutela possessoria12. Un dato di novità, nel panorama delle nuove tipologie familiari, è rappresentato dal così detto “diritto regionale della famiglia”, vale a dire quell’insieme di normative regionali, provinciali e comunali che diversamente riconoscono e sostengono le forme familiari non coniugali, attraverso la partecipazione alle graduatorie per l’assegnazione dell’edilizia popolare, per gli asili comunali, e mediante le agevolazioni per la costruzione e ristrutturazione degli immobili residenziali. La consistenza e la rilevanza di questo panorama, consolidato da disposizioni comunali che prevedono l’istituzione di elenchi delle unioni civili, impone dimestichezza con fonti tradizionalmente estranee all’ambito familiaristico. Infine, è da segnalare, sempre a livello interno, un progressivo orientamento da parte delle Corti superiori sia nei riguardi del riconoscimento della giuridica rilevanza dei legami omoaffettivi13 o, comunque, della meritevolezza del rapporto familiare che si costituisce a prescindere dell’atto di matrimonio14; sia relativamente alla garanzia di legami affettivi derivanti da forme di genitorialità così dette sociali15, strettamente legate alle prime questioni. Questo graduale attestarsi di un diritto pretorio verso i nuovi modelli familiari e genitoriali è idealmente culminato con la pronuncia della Corte europea per i diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu: nel celebre caso Oliari, l’Italia è stata condannata con un giudizio emesso all’unanimità dai giudici di Strasburgo, che hanno sanzionato ed esortato il legislatore italiano ad introdurre una disciplina volta alla garanzia dei diritti fondamentali delle coppie omosessuali16, aprendo così il varco ad altri potenziali ricorrenti. Di qui anche, forse, una certa solerzia del Parlamento italiano. È in questo complessivo e articolato quadro che si colloca l’introduzione della disciplina sulle unioni civili e sulla convivenza di fatto, la quale, come detto, mostra sin da subito alcune fragilità dovute alla necessità di trovare un adeguato compromesso politico che ne consentisse l’emanazione. Di queste criticità si intenderà dare conto, in ordine alle questioni che appaiono maggiormente significative.



2. Il primo tema che si intende affrontare, trasversalmente per le unioni civili e per le convivenza di fatto, attiene alla scelta dello strumento normativo utilizzato: il legislatore italiano, infatti, introduce ai commi primo e seguenti dell’unico articolo di cui è composta la legge, l’unione registrata fra persone maggiorenni dello stesso sesso, mediante una corposa elencazione di condizioni per contrarre l’unione, che sostanzialmente riproducono i disposti di cui agli artt. 85-88 c.c., attraverso la celebrazione dell’unione dinnanzi all’ufficiale di stato civile e la successiva registrazione dell’atto nell’archivio dello stato civile (che dovrà essere adeguato in tal senso entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge n. 176, come disposto dall’art. 28, lett. a). Dai commi 36 e seguenti dell’art. 1 è disciplinata, altresì, la convivenza di fatto, rivolta a coppie maggiorenni, a prescindere dalla caratterizzazione sessuale: la convivenza, associata o meno a contratti di convivenza che potranno disciplinare alcuni specifici profili personali e patrimoniali, è caratterizzata da brevi e puntuali requisiti (due soggetti maggiorenni, uniti da legami affettivi, non vincolati da rapporti di parentela, affinità e adozione, non già uniti in altro matrimonio o altra unione registrata) e si costituisce mediante la semplice dichiarazione anagrafica, ossia con l’iscrizione dello stato famiglia, secondo quanto previsto dagli artt. 4 e 13, comma primo, lett. b) del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223. La scelta operata dal legislatore è stata quella di un’assimilazione atipica, mediante l’introduzione di due modelli di regolamentazione sostanzialmente diversi, che almeno per le coppie omosessuali si affiancano, caratterizzati l’uno da un impianto pubblicistico (l’unione registrata), l’altro dalla combinazione di una vocazione privatistica, dettata dalla disciplina degli eventuali contratti di convivenza e di un profilo pubblicistico. È peculiare, in ogni modo, l’introduzione di modelli familiari normativi, ciascuno con una propria regolamentazione, che, mediante un approccio top down, si affiancano ai modelli familiari esistenti e che per tradizione vedono una precedente attestazione di pratiche familiari, prima di giungere ad istanze di riconoscimento giuridico, secondo un atteggiarsi tradizionalmente opposto a quello riferito. Le criticità insite nei due modelli introdotti possono essere suddivise rispetto ai due strumenti menzionati: con riferimento alle unioni registrate, in particolare, una delle più significative debolezze è dettata proprio dal compromesso politico di cui s’è fatto cenno, in nome del quale si sono prodotte delle vere e proprie acrobazie giuridiche non sempre giustificabili. Nelle norme che riguardano le coppie omosessuali, infatti, non è mai presente il termine famiglia: il comma primo dell’art. 1, infatti, descrive l’unione civile come una “specifica formazione sociale”, ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost. In nome di questa precisa volontà politica, sono state evitate alcune scelte normative che avrebbero potuto indurre ad una possibile equiparazione fra i legami: tutta la disciplina delle condizioni per contrarre il legame omosessuale, ad esempio, viene riprodotta analiticamente ai commi 4 e 7, senza alcun rinvio alle norme codicistiche corrispondenti; in maniera parzialmente diversa accade, invece, con riferimento alla disciplina della nullità dell’unione (che sarebbe stato più opportuno declinare come invalidità), nella quale la tecnica del rinvio viene opportunamente utilizzata. La riproduzione analitica del contenuto degli artt. 86, 85, 87, 88 c.c., nonché dell’art. 122 c.c., appesantisce evidentemente il testo complessivo a fronte della possibilità di rinviare alle suddette disposizioni, modificate secondo le singole necessità: così è avvenuto con la modifica dell’art. 86 c.c. (ad opera del comma 32) e 124 c.c., e non invece per l’art. 87 c.c., che avrebbe potuto recare la modifica del divieto nei riguardi della generica parentale collaterale nel terzo grado, senza alcuna caratterizzazione sessuale, e per le fattispecie di cui all’art. 1436 c.c.17 e agli artt. 65 e 68 c.c., tutti emendabili nel senso predetto e per i quali è stata preferita l’introduzione di una norma ad hoc. Nello stesso segno, di matrice eminentemente politica, si colloca la discutibile scelta di non estendere direttamente le norme di cui agli artt. 143 e 144 c.c., ma di espungere, altresì, dal comma 11, che riproduce sostanzialmente il contenuto delle due norme anzi dette, il dovere di fedeltà: in altre parole, è stato eliminato dall’unione omosessuale uno dei doveri che fondano il nucleo essenziale del legame affettivo, quello tradizionalmente più percepito e, non a caso, più sollecitato in sede di pronuncia di addebito e di illecito endofamiliare; questa sorta di “desessualizzazione” del rapporto omosessuale contiene un’implicita valutazione aprioristica di promiscuità della relazione omoaffettiva e, di qui, di gerarchia fra i legami, che non trova alcun riscontro giuridico nei principi fondamentali, ma appare essere il frutto, come segnalato, di una mera e discutibile opzione ideologica. Entrambe queste scelte, la diversificazione dal modello familiare eterosessuale e la rimozione del dovere di fedeltà dal nucleo essenziale del rapporto, scontano però alcune ambiguità: alcune meramente terminologiche, come l’utilizzo dell’aggettivo familiare in seno al comma 12, che riproduce il contenuto dell’art. 144 c.c., altre, invece, di natura sostanziale, come il rinvio all’art. 146 c.c., il quale, oltre a fare riferimento ad un ‘istituto, quello della separazione, inapplicabile, rinvia anche agli obblighi di cui all’art. 147 c.c., smentendo così l’impianto ideologico della novella, teso a regolamentare solo gli effetti orizzontali della coppia. Il legislatore, poi, con una tecnica pregevole negli intenti ma eccessivamente generica, “al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione”, ha infatti esteso l’applicazione del trattamento giuridico riservato al coniuge anche al convivente dell’unione, mediante il comma 20, il quale, salvo le disposizioni di cui alla legge 183/1984, si applica ad ogni legge, atto avente forza di legge, regolamento e ogni atto amministrativo e nei contratti collettivi. Dalla medesima ambiguità sono caratterizzate altre estensioni che, se pure altrettanto pregevoli, non collimano con il substrato ideologico indicato, riconoscendo diritti tipicamente “coniugali”: il diritto alla pensione di reversibilità (comma 17); la sospensione della prescrizione fra conviventi (comma 18); l’estensione di tutta l’area successoria, che fa del convivente un legittimario (comma 21); l’applicazione della comunione legale quale regime legale (comma 13), anche a fronte dei dati statistici, che danno detto regime in costante e ragionevole dismissione, in favore naturalmente della separazione dei beni. Ancora, appare fortemente critica l’assenza del regime pubblicitario delle pubblicazioni, a fronte di un sistema di impedimenti para-matrimoniali sostanzialmente identico a quello codicistico, suggerendo l’idea che la responsabilità in capo agli ufficiali dello stato civile inevitabilmente incontrerà un sostanziale aggravio. Non solo critica, ma sospetta di profili di incostituzionalità sembra la scelta di limitare l’unione registrata ai soli maggiorenni, stante la norma di cui all’art. 84 c.c., con il correlato controllo giudiziale, nonché la possibilità di costituire il legame di filiazione anche precedentemente al compimento dei sedici anni, in virtù del novellato art. 250 c.c. Infine, in attesa dell’emanazione della disciplina delegata, che potrebbe in tal senso disporre, appaiono indeterminati alcuni profili: l’assenza di una modifica dell’art. 78 c.c. fa dubitare sul fatto che la costituzione crei un legame di affinità, con la relativa estensione di ciò, ad esempio, in tema di impedimenti matrimoniali (art. 87 c.c.) e para-matrimoniali (comma 4, lett. c); la modifica dell’art. 86 in tema di libertà di stato non ha però (ancora) visto analogo mutamento nell’art. 556 c.p., dovendosi pertanto attendere i decreti delegati per comprendere se il reato sia ampliato nella sfera oggettiva, applicandosi anche fra unioni e fra unione e matrimonio. Infine, con riguardo all’area penale genericamente intesa, ci si chiede se, data la configurazione dell’unione civile quale formazione sociale e non quale famiglia, ciò possa in qualche modo rilevare in sede di verifica dell’integrazione dei reati “familiaristicamente connotati”: se, invero, in alcune fattispecie penali la convivenza assume elemento qualificante della fattispecie, ve ne sono altre nelle quali è l’esistenza di un assetto familiare a costituire il sostrato della fattispecie; ad esempio, nel caso del reato di cui all’art. 572 c.p., il legislatore, assimilando con l’art. 4 della legge 172/2012 un’interpretazione consolidata della giurisprudenza, ha esteso l’ambito di applicazione della fattispecie anche alla famiglia non fondata sul matrimonio; detta estensione, tuttavia, non ha escluso il dubbio in relazione alla sussistenza del reato anche in assenza di una convivenza; soffermandosi sul concetto di persona della famiglia “o comunque convivente” rilevante ai sensi dell’art. 572 c.p., la Cassazione ha, infatti, ritenuto insussistente la fattispecie in ipotesi di precarietà del rapporto sentimentale e di mancanza di una convivenza stabile e continuativa18, quanto meno nel caso di assenza di un rapporto matrimoniale, nel quale, invece, mancante la convivenza (ad esempio, a seguito di comportamento ex art. 146 c.c. ovvero in stato di separazione personale dei coniugi), permangono in ogni caso i doveri giuridici correlati all’art. 143 c.c. V’è da chiedersi, a tal proposito, se nel caso di unione civile, soddisferà la sola esistenza di una convivenza stabile, inqualificabile tuttavia come “famiglia”. Analoghi dubbi rilevano nel caso della fattispecie di cui all’art. 570 c.p., giacché è vero che la norma punisce colui il quale si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, o alla qualità di coniuge, tuttavia la rubrica della stessa norma identifica l’ambito soggettivo di applicazione con il nucleo familiare, assente appunto nel caso di un legame omosessuale. Infine, non è puntualizzato se la tecnica assimilatoria del comma 20 si applichi anche alle norme penali in malam partem derivanti dalla qualità di coniuge, ossia a quelle ipotesi in cui detta qualità comporta un aggravamento della posizione del soggetto, come nel caso di cui all’art. 577 c.p., come anche alle ipotesi normate di incompatibilità. In ogni caso, e in un senso più ampio, v’è da interrogarsi se l’estensione prodotta dal comma 20 della legge n. 76 sia sostenibile, da sola, anche al fine di modificare sostanzialmente la costruzione di fattispecie penali, le quali, in ragione di un generale principio di tassatività, non dovrebbero poter giovarsi di un generico rinvio ad ogni legge, atto avente forza di legge, regolamento e ogni atto amministrativo e nei contratti collettivi, ma dovrebbero richiedere una puntuale regolamentazione, anche in ragione del fatto, come detto, che nel caso di unioni civili è esplicitamente e volutamente assente un nucleo familiare. Proseguendo con le convivenze di fatto, molte delle criticità sorgono in ragione della tecnica assimilatoria utilizzata, per la quale i conviventi sono in parte equiparati ai coniugi (ad esempio in materia di diritti spettanti in materia di ordinamento penitenziario e in caso di malattia e ricovero, secondo quanto disposto dai commi 38 e 39), in parte no (ad esempio, è esclusa l’equiparazione del convivente ai fini successori). La convivenza di fatto è destinata a soggetti maggiorenni e a prescindere dalla caratterizzazione sessuale, uniti da legami affettivi, non vincolati da rapporti di parentela, affinità e adozione, non già vincolati in altro matrimonio o altra unione registrata. A questa inedita fattispecie il legislatore ha attribuito un’attenzione più frettolosa, quanto meno rispetto a questi primi profili: non viene chiarito, ad esempio, se la convivenza di fatto crea legami di affinità, poiché, pur realizzandosi con un mero adempimento burocratico, costituisce comunque un nucleo familiare; né se il generico vincolo di parentela che impedisce la convivenza sia quello dell’art. 87 c.c. ovvero un divieto diverso, più ampio o più ristretto. Di là da queste brevi osservazioni, è il senso complessivo dell’intero impianto normativo che appare meno comprensibile: attraverso questa tecnica normativa, la convivenza si costituisce mediante la semplice dichiarazione anagrafica, ossia con l’iscrizione dello stato famiglia, secondo quanto previsto dagli artt. 4 e 13, comma primo, lett. b) del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 e che costituisce, in tal senso, solo il dies a quo, ma nulla dice, però, sull’esistenza o meno di una comunione di vita materiale e spirituale, né su un quantum temporale necessario a costituirla. Deve dedursi che, se non s’intende acquisire i diritti sanciti da questo nuovo istituto, si dovrà necessariamente scegliere la via della totale invisibilità, non iscrivendosi nello stato famiglia comune; se si era già iscritti precedentemente all’entrata in vigore della legge, si dovrà inevitabilmente modificare lo stato famiglia, eliminando uno dei due conviventi, che dovrà provvedere a eleggere un’altra residenza, salvo che la legge delega disporrà diversamente. L’istituto della convivenza di fatto certamente costituisce e riconosce alcuni diritti e doveri di rilevanza fondamentale per gli individui, che tuttavia questi stessi individui potrebbero non voler acquisire o, meglio, che potrebbero non voler adempiere. È vero che molte delle situazioni soggettive sancite dalla novella erano, in realtà, diritti e doveri già riconosciuti attraverso quelle menzionate estensioni normative e giurisprudenziali e dalle normative regionali e degli enti locali; tuttavia, la legge introduce istituti inediti e, in ogni caso, le ragioni per cui gli appartenenti ad famiglia non fondata sul matrimonio scelgono di iscriversi in uno stato famiglia comune, tradizionalmente si trovano nell’aspirazione al godimento dei così detti diritti sociali, determinandosi volontariamente verso un regime a latere del modello matrimoniale e per le motivazioni più diverse. In altre parole, non è stato considerato un opportuno coordinamento fra le situazioni anagrafiche precedenti all’entrata in vigore della legge e il nuovo sistema, in virtù del quale i soggetti si troverebbero a sottostare ad un regime giuridico che potrebbero non volere o non volere appieno.



3. Con riferimento ad entrambi gli istituti descritti, pure la scelta della tecnica normativa utilizzata appare peculiare: oltre alla discutibile e faticosa costruzione di una disciplina composta di un solo articolo e sessantanove commi, in luogo dell’originario progetto che era stato redatto secondo modalità più consone, si è già rilevata la scarsa tendenza ad usufruire della tecnica del rinvio materiale (come avvenuto invece al comma 19) o di quella assimilatoria (comma 20), con l’inevitabile conseguenza che vi sono numerose disposizioni che si sovrappongono ad altre disposizioni già esistenti, producendo un fenomeno di sovrapproduzione normativa negli ambiti dove esistono già fonti normative primarie, in quelli in cui vi è una copiosa e variegata produzione degli enti locali, e laddove la giurisprudenza ha già espresso posizioni più o meno consolidate. Venendo al primo ambito, appaiono discutibili, ed esito di una superfetazione, le norme di cui ai commi 15 per le unioni civili e 48 per le convivenze di fatto, per quanto attiene all’amministrazione di sostegno e agli istituti di protezione, e quella di cui al comma 14 con riferimento agli ordini di protezione contro le violenze familiari: per entrambe le aree di competenza, infatti, gli artt. 404, 417 e l’art. 342 bis c.c. prevedono, fra i legittimati ad attivare le relative procedure, non solo il coniuge, ma anche la persona stabilmente convivente. Analoga considerazione vale per il comma 38, il quale con il solo riferimento alla convivenza di fatto, attribuisce al convivente i medesimi diritti spettanti al coniuge nel casi previsti dall’ordinamento penitenziario: già il d.P.R. 431/1976 prevede il convivente fra i soggetti ai quali è concesso di intrattenere colloqui con il detenuto (art. 35), anche se sottoposto a regime di sorveglianza speciale, nonché conversazioni telefoniche (art. 37). Infine, le ultime considerazioni sulla sovrapposizione con la normativa primaria esistente sono rivolte ad uno specifico comma, solo a prima vista innovativo, ma che evidenzia a tutta prima più di una criticità: il comma 40, infatti, con riferimento alle sole convivenze di fatto, traccia una sorta di statuto in materia di salute e di autodeterminazione dispositiva nella famiglia non fondata sul matrimonio. Ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, mediante atto scritto e autografato o alla presenza di un testimone, 1) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere per le decisioni in materia di salute; in caso di morte 2) per quanto attiene alla donazione di organi; 3) le modalità di trattamento del corpo; e 4) le celebrazioni funerarie. Per quanto riguarda la prima delle ipotesi, quella relativa alle decisioni in materia di salute nelle ipotesi di malattie che comportano incapacità di intendere e di volere, sembra evidente che o la norma è inutile, stante la disposizione di cui al comma 48 in tema di amministrazione di sostegno e l’applicazione che di questa viene operata diffusamente dai giudici, oppure il legislatore ha inteso introdurre surrettiziamente una fattispecie evanescente e meramente descrittiva, contenente il testamento biologico, demandata peraltro alla discrezionalità dell’operatore, notaio e avvocato, che dovrà redigere i contratti di convivenza (di cui al comma 53): se fosse avallata questa seconda ipotesi, di cui è evidente la pericolosità, sarebbe necessario osservare, di converso, l’opportunità di un’autonoma disciplina sulle delle direttive anticipate di fine vita, tema di altissima complessità, al fine di evitare incertezze applicative e interpretative. Proseguendo, anche la seconda ipotesi individuata dal comma 40 sembra interferire con disposizioni normative già vigenti: allorquando il legislatore consente al convivente di essere nominato rappresentante in caso di morte dell’altro per quanto riguarda la donazione di organi, evidentemente, produce una sovrapposizione con le disposizioni di cui alla legge 1° aprile 1999, n. 91, la quale al suo regime transitorio di cui all’art. 23, peraltro l’unico vigente, già contempla la persona stabilmente convivente fra i soggetti legittimati ad fare opposizione all’espianto. La disposizione, nel senso considerato, dimostra la sua ridondanza in termini di inutilità. Con riguardo alla possibilità che il convivente decida sulle modalità di trattamento del corpo del defunto, si possono muovere altrettante osservazioni: se con la locuzione “trattamento del corpo” si allude, come pare, alla possibilità di cremazione e all’eventualità di dispersione delle ceneri, già l’art. 3 della legge 30 marzo 2001, n. 130 prevede che la cremazione avvenga sulla scorta della volontà documentata del defunto, che si ricava attraverso la precedente compilazione di un testamento, ovvero dalla partecipazione del defunto ad un’associazione che abbia come fine statutario proprio la cremazione dei cadaveri dei suoi associati: in ogni caso, nell’ipotesi di contestazioni o nell’assenza di qualsiasi volontà manifestata da parte del defunto, la legge prevede la consultazione dei familiari e dei prossimi parenti (così come declinati dagli artt. 74 ss.). In questo secondo caso, la disposizione non appare inutile perché ridondante, bensì perché idonea a non produrre alcun effetto se la posizione del convivente non è, come non è stata, assimilata a quella di coniuge. Sarebbe stato più opportuno, forse, modificare proprio la legge del 2001, al fine di ampliarne l’ambito soggettivo di applicazione anche al convivente di fatto. Infine, similmente all’ultima delle ipotesi previste, quella che consente, in caso di morte del convivente, di decidere in merito alle celebrazioni funerarie, si possono muovere analoghe obiezioni, posto che con il termine celebrazioni funerarie si crede doversi alludere non tanto alle modalità di svolgimento, quanto alle spese inerenti alle stesse celebrazioni: le spese funerarie, infatti, sono considerate per giurisprudenza consolidata pesi ereditari19. Per questa ragione, analogamente a quanto sopra osservato, la disposizione potrebbe concretamente rivelarsi priva di concreta applicazione, in virtù del fatto che la posizione del convivente, come detto, non è stata assimilata a quella di coniuge, subendo così i limiti che le norme successorie le impongono.

Il fenomeno di sovrapproduzione normativa della disciplina n. 76/2016 si manifesta in una maniera tutta particolare anche con riferimento alle disposizioni regionali e degli enti locali: infatti, a fronte di una copiosa e variegata produzione di normative regionali, provinciali e comunali, il legislatore ordinario ha “risolto” la questione del così detto “diritto regionale della famiglia” mediante il (solo) comma 45, che sancisce l’estensione ai conviventi di fatto dei benefici “nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare”. Ci si chiede, in sostanza, l’opportunità di una sola norma che riconosce unicamente il diritto a partecipare alle graduatorie per l’assegnazione dell’edilizia popolare, non anche per gli asili comunali e alle agevolazioni per la costruzione e ristrutturazione degli immobili residenziali, solo a titolo d’esempio. L’area di diritti sociali si presenta così ampia ed eterogenea da far pensare che, con tutta probabilità, si sarebbe potuto meglio delegare al Governo una puntuale e più meditata legislazione in tal senso. A questi rilievi si associa una ulteriore osservazione: una puntuale regolamentazione, come quella operata in questa sede, fa sorgere il dubbio sinteticamente individuato dal brocardo latino ubi lex non dixt, non voluit, principio che certamente dà da pensare su ciò che residuerà in termini di situazioni soggettive riconosciute e della loro applicazione concreta rispetto a quanto il legislatore ha deciso di disciplinare e di non disciplinare. Questa riflessione appare congrua anche con riguardo al terzo ambito di intervento, quello per il quale già esisteva una giurisprudenza cospicua e più o meno consolidata; anche in questo caso, sono evidenti le disposizioni superflue, quelle ambigue e quelle assenti: il comma 49, ad esempio, traccia con molta chiarezza il diritto del convivente di fatto al risarcimento del danno patrimoniale e di quello morale soggettivo nel caso di morte del congiunto, dimostrando la sua inutilità, data la posizione consolidata della giurisprudenza di merito che riconosceva il diritto non solo per i conviventi di fatto, ma anche per le coppie omosessuali già prima dell’introduzione della presente legge. La delimitazione operata alla sola risarcibilità dei danni derivanti da morte del partner, per altro verso, mette in ombra l’orientamento estensivo della giurisprudenza, che già ampliava la risarcibilità ai danni anche a quelli per le lesioni incorse al convivente, ad esempio, in incidente stradale20. Analoghi dubbi, in questa direzione, muovono dall’assenza di ogni riferimento alla tutela possessoria del convivente, detentore qualificato, recentemente confermata sia nei riguardi dell’altro convivente, titolare del diritto di proprietà dell’immobile, sia nei confronti di terzi21, soprattutto alla luce dell’esplicito riconoscimento compito verso il diritto a succedere nel contratto di locazione: al comma 44, infatti, la novella sancisce il diritto del partner di succedere nel contratto di locazione nel caso di morte o di suo volontario recesso; in questa ipotesi, invero, le perplessità riguardano un tema ampiamente consolidato nel nostro ordinamento, in ragione della celebre sentenza della Corte costituzionale n. 404 del 1988, la quale, pur estendendo la tutela al convivente di fatto, ha limitato detta estensione alla presenza di prole naturale; questo orientamento restrittivo, confermato dalla stessa Corte nelle successive ordinanze n. 204 del 2003 e n. 7 del 2010, sembrerebbe giustificare la natura e la portata dell’intervento di cui si tratta. Tuttavia, per un verso, l’aver definitivamente sancito l’ingresso nell’ordinamento giuridico di un istituto a fondamento delle forme familiari non fondate sul matrimonio avrebbe, forse, fatto auspicare un cambio di rotta da parte della giurisprudenza, anche in ragione di una più complessiva visione di sistema; per altro verso, meglio sarebbe stata una modifica nella stessa legge c.d. sull’equo canone, n. 392 del 1978, proprio in capo al suo tormentato art. 6.



4. La novella n. 176 si caratterizza anche per una consistente, ma non meno problematica, portata innovatrice, dovuta all’introduzione di istituti nuovi ovvero alla presenza di disposizioni che in qualche modo impongono una riflessione su quelli esistenti. In primo luogo, la disposizione di cui al comma 10 della disciplina introduce la possibilità per la sola coppia omosessuale di assumere, per la durata dell’unione civile, un cognome comune, scegliendolo fra i loro. Le criticità sin da subito evidenti concernono i profili per così dire strutturali della norma e, per altro verso, coinvolgo considerazioni di natura programmatica e de iure condendo. La scelta del cognome comune, che la parte può decidere di anteporre o posporre al proprio cognome, se diverso, avviene mediante dichiarazione allo stato civile, evidenziando una certa leggerezza del legislatore nel voler regolamentare il profilo, che dovrà essere probabilmente arginata in sede di legge delega, allorquando il Governo sarà chiamato a ridisegnare alcuni aspetti fondamentali dell’ordinamento dello stato civile, a pena di delicatissimi problemi di identificazione, di certificazione e di circolazione degli status. Inoltre, la disposizione prevede che l’uso del cognome comune si collochi temporalmente in maniera coincidente alla durata dell’unione, nulla disponendo con riguardo all’ipotesi in cui l’unione stessa si sciolga: a tal proposito, invero, solo la legge sul divorzio, fra le discipline richiamate di seguito per regolamentare lo scioglimento del legame, prevede compiutamente un assetto sull’uso del cognome. Infine, non può che rilevarsi, in termini del tutto programmatici, come l’istituto introdotto si affianchi ad una serie di norme che altrettanto dispongono in materia, con l’ovvia conseguenza che, nel nostro ordinamento, accanto al cognome comune dell’unione civile sono previste oggi: la norma sul cognome della moglie, di cui all’art. 143 bis c.c., quella sul cognome dei figli naturali, prevista all’art. 262 c.c., la consuetudine del patronimico; e che, solo per le note vicissitudini politiche che hanno condotto ad espungere dalla novella la così detta stepchild adoption, non vi è stata l’introduzione anche del cognome del figlio della coppia, sulla scorta del combinato disposto di cui agli artt. 55 l. adoz. e 299 c.c. Questo proliferare di norme sul medesimo tema avrebbe potuto condurre il legislatore ordinario a meglio optare per una delega al Governo, al fine di disegnare un statuto giuridico chiaro sul cognome familiare. Analoga portata innovativa dimostra il comma 46, che prevede, con il solo riferimento ai conviventi di fatto, un inedito istituto dell’impresa familiare a cui partecipa il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente: a quello spetterà, secondo la lettera del nuovo art. 230 ter c.c., la partecipazione agli utili dell’impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche rispetto al suo avviamento, commisurata al lavoro prestato. La norma che finalmente supera la tradizionale presunzione di gratuità delle prestazioni rese all’altro convivente, nonché l’orientamento restrittivo nei riguardi dell’applicazione della disciplina all’area della famiglia di fatto22, tuttavia dimostra almeno due profili di criticità: in primo luogo, una posizione di maggiore debolezza rispetto a quella riconosciuta al coniuge e ai parenti dell’imprenditore, prevista dalla norma di cui all’art. 230 bis c.c., debolezza che si sarebbe potuta evitare, optando per l’ampliamento dell’ambito soggettivo dello stesso art. 230 bis c.c. anche al convivente di fatto; in secondo luogo, la stessa formulazione della disposizione, che limita il diritto di partecipazione quando fra i conviventi sussista un rapporto di società o di lavoro subordinato, lascia nell’assoluta ambiguità interpretativa le ipotesi diverse e non contemplate, quali l’associazione in partecipazione o il lavoro autonomo. Con riferimento all’area della crisi, intesa in senso generale, la novella introduce un’altra fattispecie di altrettanta complessità ricostruttiva: il comma 42, con riferimento ai soli conviventi di fatto, costituisce un inedito e per certi versi anomalo diritto di abitazione. La norma dispone, infatti, che, salvo quanto disposto dall’art. 337 sexies c.c., in caso di morte del partner proprietario della casa di comune residenza, l’altro convivente ha diritto di continuare a restare nella stessa residenza per due anni ovvero per un tempo pari alla durata della convivenza, se la stessa è stata superiore a due anni e in ogni caso per un periodo non superiore a cinque anni; se, nondimeno, nella casa “familiare” il partner superstite convive con figli minori o disabili, questi ha diritto a rimanervi per un periodo non inferiore a tre anni. La fattispecie si presta a molteplici obiezioni, che non sono state pacificate dalla modifica intervenuta nelle more della stesura del d.d.l. alla disposizione originaria, anch’essa a sua volta molto criticabile. L’ambiguità di questa nuova fattispecie deriva, naturalmente, dalla scelta fatta di non volere parificare la posizione di convivente a quella di coniuge con tutte le conseguenze di questa possibilità, ragion per cui, l’istituto non pare assimilabile - quanto a disciplina ed effetti - alla norma di cui al secondo comma dell’art. 540 c.c.; altrettanto, però, sembra inverosimile un accostamento all’istituto più tradizionale dell’art. 1022 c.c., per la ragione che la compressione temporalmente già prevista e scandita non collima con la ratio dell’istituto classico, inteso quale diritto della personalità e correlato ai bisogni della persona e della sua famiglia. Prescindendo da profili di incostituzionalità, la norma si dimostra, in ogni caso, di difficile ricostruzione teorica e dalla scarsa agilità applicativa, aggravate dal seguente comma 43 che prevede la perdita del diritto di abitazione nel caso in cui il coniuge superstite cessi di abitare stabilmente nella casa ovvero contragga un nuovo legame (matrimonio, unione o altra convivenza): così esplicitando di non aver minimamente considerato tutte le questioni inerenti alla perdita “automatica” del diritto, sorte in seguito all’emanazione dell’allora art. 155 quater c.c.23 Concludendo sul punto, si consenta di soffermarsi su un ulteriore profilo: il riferimento alla norma sull’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di crisi della famiglia, se ben si situa nel contesto della famiglia di fatto eterosessuale, alcuni problemi invece pone con riferimento alla famiglia di fatto omosessuale in presenza di prole; l’aver espunto la norma sulla c.d. stepchild adoption pone, infatti, la questione della presenza di figli comuni alla coppia, ma giuridicamente legati ad uno solo dei partner della coppia di fatto. Nel caso di morte dell’unico genitore (legale) del minore, l’altro partner, anch’esso genitore ma solo socialmente e affettivamente, sarebbe un soggetto totalmente estraneo sia verso il convivente deceduto (poiché non legittimario ed erede nella misura ed entro i limiti in cui ciò possa essere), sia - ancor di più - nei riguardi del minore: ragion per cui, il rinvio all’art. 337 sexies dimostrerà, almeno con riguardo alla convivenza omosessuale, scarsa o problematica dimensione applicativa, stante in ogni caso il diritto del minore a permanere nella casa (della quale sarà probabilmente vento in possesso tramite successione), ma in presenza di un soggetto che sarà solo affettivamente suo genitore. Altre novità riguardano l’area dello scioglimento del legame: sia di quello omosessuale (a), sia della convivenze di fatto (b), sia nel caso di transizione sessuale di uno dei partner (c). Venendo alle unioni civili (a), la disciplina approvata prevede l’ipotesi di scioglimento sulla scorta dell’art. 149 c.c., ossia per morte e per morte presunta (comma 22), e l’accesso al divorzio (comma 23) e alla sua procedura in quanto compatibile (art. 25), ma solo per alcune delle fattispecie, ossia per quelle “penalmente rilevanti”, di cui all’art. 3, n. 1 e n. 2, lettere a), c) e d), nonché per l’ipotesi di matrimonio sciolto, annullato o contratto all’estero dal coniuge straniero, così escludendo sia tutta l’area della separazione, originariamente prevista, sia il c.d. matrimonio rato e non consumato nonché, per le ragioni di seguito esposte, l’area della transizione sessuale. Al comma 25, inoltre, la disciplina estende alle unioni civili i nuovi istituti previsti agli artt. 6 e 12 della legge 10 novembre 2014, n. 162, di conversione del decreto legge n. 132/2014. Anche in questo caso, tuttavia, la tecnica normativa appare improvvida: il legislatore non ha affiancato detta l’estensione ai necessari emendamenti all’ambito oggettivo di applicazione delle nuove fattispecie, ampliando anche alle unioni la possibilità di sciogliere o attenuare il legame con la negoziazione assistita da avvocati o con la procedura dinnanzi all’ufficiale di stato civile. Così facendo, tuttavia, si viene a produrre una situazione tutta peculiare sotto il profilo interpretativo: la disciplina sulla negoziazione assistita dagli avvocati e la procedura di “scioglimento” dinnanzi all’ufficiale di stato civile, infatti, prevedono che l’accordo raggiunto dalle parti possa regolamentare le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili e di scioglimento del matrimonio nonché di modifica delle condizioni di separazione e divorzio. Dando per esclusa l’applicabilità per la parte concernente la separazione consensuale (estromessa dalla disciplina sulle unioni civili), così come per le modifiche delle condizioni di separazione consensuale, per ovvie ragioni, rimane da considerare l’area dello scioglimento del vincolo: nondimeno, il dettato normativo degli artt. 6 e 12, della legge di conversione n. 162/2014, chiaramente delimita l’applicabilità dei nuovi istituti a quelle procedure divorzili che, in virtù di quanto disposto dall’art. 3, primo comma, numero 2), lett. b), della legge 1° dicembre 1970, n. 898, derivano da precedenti pronunce di separazione, consensuale o giudiziale. È presumibile che l’ostacolo letterale non si rivelerà insormontabile, attraverso un’interpretazione teleologica che potrebbe salvare un costrutto normativo, però, di dubbio pregio e inutilmente foriero di equivoci. Infine, al comma 24, il legislatore introduce la vera novità nell’area della crisi dell’unione, prescrivendo che l’unione stessa si sciolga quando le parti manifestino anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinnanzi all’ufficiale di stato civile; in questo caso, tuttavia, è disposto che la domanda debba essere proposta dopo che siano decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento, termine mutuato dalla disciplina spagnola. In Spagna, dove vige un regime per certi verso analogo, le parti, per poter presentare la domanda di divorzio debbono attendere che dalla celebrazione del matrimonio siano trascorsi tre mesi e, in ogni caso, deve trattarsi di una domanda di divorzio congiunta, allo scopo probabilmente di scongiurare l’ingresso di ipotesi di alta conflittualità e dando una sorta di “periodo minimo di vigenza” a partire dal quale consentire lo scioglimento del vincolo senza il precedente periodo di separazione legale: opinabile o meno che sia la procedura in tal senso tracciata, e soprattutto detto periodo minimo, il regime è in ogni caso generale e si applica a tutte le unioni matrimoniali, anche a quelle omosessuali. Nel nostro caso, invece, si tratta di un regime speciale, previsto solo per le unioni civili omosessuali, che limita la libertà di scioglimento, ma non dalla data della costituzione dell’unione, sul modello spagnolo, bensì dal momento in cui è stata manifestata l’intenzione di liberarsi dal legame; la norma, peraltro, non collima con la possibilità, offerta dall’art. 12, l. 162/2014, di sciogliere il vincolo congiuntamente e in maniera abbastanza agile, di fronte ad un’autorità amministrativa. La disposizione, che forse potrebbe sollevare qualche profilo di illegittimità costituzionale, contiene aspetti assai problematici anche sotto il profilo della certificazione, in ordine al come e da chi verrà attestata la volontà iniziale di scioglimento, rispetto ai quali la legge delega dovrà offrire risposte adeguate. In caso di cessazione della convivenza di fatto (b), il comma 65 recita che “il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”. La disposizione così costruita, che può sembrare un lapsus di chi scrive, è invece il frutto di una frettolosa riscrittura della norma: nel testo uscito dalla Commissione parlamentare, infatti, l’art. 15 (“Obbligo di mantenimento e alimenti”) prevedeva che, appunto, in caso di “cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti dell’art. 156 c.c., il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente quanto necessario per il proprio mantenimento per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza” e che, “ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 438 c.c., il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza”. In questo senso, l’intento legislativo mostrava di applicare alla fattispecie non solo i tradizionali criteri e strumenti di cui all’art. 156 c.c., ma anche le due possibilità dell’assegno di mantenimento e di quello alimentare. La precedente formulazione, peraltro, faceva sorgere una serie di interrogativi su quali procedure potessero essere attivate in queste ipotesi, se il rinvio all’art. 156 c.c. intendesse estendere l’applicazione a tutti gli strumenti di garanzia previsti, compreso l’addebito per la violazione dei doveri coniugali, e sulle modalità per decidere in materia di addebito, vista l’assenza dell’intera procedura separativa, sotto profilo sostanziale e processuale. È presumibile che, in maniera maldestra, il legislatore abbia inteso eliminare completamente ogni riferimento alla possibilità di prevedere forme di solidarietà “postconvivenza”, lasciando così spazio solamente all’altro istituto previsto, quello degli alimenti. Tuttavia, anche in questo caso, la disciplina appare contestabile, poiché, secondo il dettato del comma 65, nel caso in cui il convivente versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, gli alimenti sono assegnati dal giudice “per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438, c.c.”, secondo un ordine di preferenza che colloca il convivente obbligato con precedenza dei soli fratelli e sorelle, nell’ordine previsto dall’art. 433 c.c. Di là dal fatto che inserire il convivente al penultimo posto dell’ordine previsto dalla norma ne rende concretamente ridotto il margine di applicabilità e svilisce il senso, peraltro indicato dai commi 36 e 37, di reputare la convivenza di fatto una forma familiare, fondata su legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, ciò che appare oltremodo sorprendente è la previsione dell’assegnazione degli alimenti per un periodo proporzionale alla durata della convivenza: il diritto alla corresponsione dell’assegno alimentare e la sua temporaneità appaiono dogmaticamente inconciliabili, in ragione della natura personalissima dell’interesse sotteso all’istituto, al punto da far emergere fortissimi sospetti di incostituzionalità. Concludendo, la novella prevede due specifiche ipotesi di scioglimento dell’unione e del matrimonio fra soggetti dei quali uno abbia fatto transizione sessuale (c): è noto come, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del sistema del divorzio imposto, o automatico, la stessa Corte abbia esortato il legislatore italiano a provvedere quanto prima al riconoscimento delle unioni omoaffettive, anche sub specie dell’unione ex post omosessuale, come nel caso di una relazione coniugale fra due soggetti dei quali uno abbia transitato nell’altro sesso, al fine di garantire ai soggetti il diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale. Il legislatore, con due previsioni contigue, prescrive che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione del sesso determina lo scioglimento dell’unione civile omosessuale (comma 26); mentre, alla rettificazione dell’attribuzione del sesso, ove i coniugi manifestino la volontà di non sciogliere il matrimonio, consegue l’automatica conversione in unione civile (comma 27). La previsione di un trattamento ingiustificatamente discriminatorio fra unione civile e matrimonio non ha ragion d’essere sotto il profilo giuridico e causerà, con tutta probabilità, se non un rinvio alla Corte costituzionale, certamente un ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo, per il doppio profilo della violazione del diritto alla vita privata e familiare dell’art. 8 Cedu e del principio di non discriminazione dell’art. 14 Cedu. La Corte di Strasburgo, peraltro, conosce il tema per averlo affrontato in un recente ricorso contro la Finlandia: in Corte Edu H. c. Finlandia, decisa in prima istanza il 13 novembre 2013, poi conferita e confermata dalla Grande Camera il 16 luglio 2014, la Corte non ha ravvisato la violazione degli artt. 8, 12, 14 Cedu, in ragione del fatto che il sistema finlandese, nel caso la persona transessuale fosse vincolata da precedente legame rimasto intatto, prevede la conversione del matrimonio in unione registrata omosessuale e viceversa, tramite il consenso dell’altro partner. A opinione del giudice di Strasburgo, l’ingerenza statale appare legittima e non sproporzionata: valutazione che, nel caso italiano, sarà forse di tutt’altro tenore nel caso delle norme sopra menzionate.



5. È possibile dedurre, dallo scenario delineato, che la nuova legge n. 176 incontrerà molti ostacoli alla sua concreta applicazione, alcuni di ordine meramente interpretativo, altri di gravità maggiore, alla luce soprattutto del percorso segnato dalle pronunce di condanna dell’Italia della Corte europea per i diritti dell’uomo proprio in tema di diritti della nuove famiglie e delle nuove forme di genitorialità. Le censure che potranno muoversi all’ordinamento giuri dico italiano, nondimeno, forse non riguarderanno tanto l’impianto legislativo delle unioni civili in sé per sé, nella prospettiva delineata della Corte europea nel celebre caso Oliari: molte criticità della disciplina, infatti, non riguardano il profilo dei diritti fondamentali, cha appaiono sostanzialmente riconosciuti e tutelati, ma si delineano, invece, come possibili “censure di diritto interno”. Questo può dirsi sia per il mancato riconoscimento del diritto del minore a contrarre un’unione civile (comma 2), sia per il limite temporale dei tre mesi per poter sciogliere l’unione civile (comma 24) sia, con riguardo ai conviventi di fatto, per il nuovo diritto di abitazione “a tempo” (comma 42) e per l’altrettanto inedito istituto degli “alimenti a tempo” (comma 65). Tutte queste questioni appaiano fortemente problematiche alla luce dei principi di eguaglianza e pari dignità. In altro senso, il caso dello scioglimento del vincolo a seguito della transizione sessuale (commi 26 e 27) provocherà probabilmente alcuni effetti nel senso già indicato da Strasburgo, ossia nei riguardi di un possibile accesso alla Corte europea per i diritti dell’uomo con riferimento in particolare al principio di non discriminazione, di cui all’art. 14 Cedu, e del diritto alla vita privata e familiare, di cui all’art. 8 Cedu. Ancora, analoghe problematiche solleverà l’istituzione del nuovo cognome familiare, ma in un senso opposto a quello appena indicato: la norma di cui al comma 10, infatti, introducendo un regime opzionale di scelta del cognome familiare, pone ancora un volta l’accento sull’intollerabilità del regime del patronimico, presente anche senza una norma scritta nell’ordinamento giuridico italiano e già censurato dalla Corte Edu nel celebre caso Cusan e Fazzo c. Italia, che ha visto la condanna dell’Italia per l’inderogabilità del regime vigente24. Infine, alcune osservazioni conclusive vanno dedicate all’istituto assente, ossia alla previsione originariamente prevista della second parent adoption (anche detta erroneamente stepchild adoption), che è stata stralciata prima del voto di fiducia dal testo di legge. La legge n. 176 presenta significative lacune a riguardo: la prima, per non aver finalmente aperto il varco stretto dell’art. 6, l. adozione, estendendo l’ambito soggettivo di applicazione anche ai conviventi di fatto; operazione che, naturalmente, non è stato possibile portare avanti, dal momento che la convivenza di fatto non è sessualmente caratterizzata, potendo accedervi per ciò anche le coppie omosessuali. La maggiore criticità, però, è ravvisabile nel mancato riconoscimento della genitorialità sociale omoaffettiva, che si sarebbe potuto operare secondo diverse strade. Lo stralcio della norma originariamente prevista all’art. 5 del d.d.l. prevedeva, infatti, la modifica dell’art. 44, lett. b), l. adoz., consentendo l’accesso all’adozione in casi particolari anche al convivente dell’unione civile nei riguardi del figlio, anche adottivo, dell’altro partner. La sovranità parlamentare non concede altro spazio; le valutazioni di questa assenza alla luce della giurisprudenza della Corte europea, invece, consentono qualche considerazione all’intereprete: la Corte di Strasburgo ha ripetutamente espresso che l’art. 8 Cedu, in combinato disposto con l’art. 14 Cedu, di per sé non accorda a tutti il diritto di adottare, restando fermo il margine di discrezionalità degli Stati sulle modalità di disciplinare i propri istituti, come quello adottivo, ma stessa Corte ha anche ripetutamente ribadito che la garanzia dell’art. 8 Cedu, sub specie del diritto dei minori al mantenimento dei legami familiari e affettivi, non può subire limitazioni, né quando alla situazione fattuale, dettata dalla presenza di una relazione significativa, corrisponda una situazione giuridica, ossia un rapporto di filiazione, né quando alla situazione fattuale non corrisponda alcun rapporto giuridico di filiazione: nel primo (Zhou c. Italia25) come nel secondo caso (Moretti e Benedetti c. Italia e Paradiso e Campanelli c. Italia26), lo Stato italiano è già stato condannato per non aver adeguatamente garantito le ragioni della conservazione dei legami affettivi dei minori con gli adulti di riferimento e, di qui, per non avere correttamente tutelato l’interesse superiore dei minori all’interno dei contesti familiari di riferimento. In questo senso, la legge n. 176 non dà risposte adeguate a situazioni familiari esistenti e consolidate e ciò, se può non apparire un problema giuridico, è però certamente un problema sociale.

NOTE

1 In relazione alla graduale assimilazione fra legame coniugale e non coniugale, alla luce della

valutazione del rapporto sostanziale in essere, v. Cass. SS.UU., 17 luglio 2014, n. 16379, in Fam.

dir., 2915, p. 220; più recentemente Cass., 1° aprile 2015, n. 6611 e Cass., 3 aprile 2015, n. 6855.

2 In senso analogo, Cass., 20 gennaio 1989, n. 285, in Foro it., Rep., 1989, voce Obbligazioni in

genere, n. 23; Trib. Roma, 13 maggio 1995, in Gius, 1995, 3593.

3 Diversamente, in tema di previdenza, v Corte cost., 3 novembre 2000, n. 416, in Giust. civ., 2001,

I, p. 295: “È infondata la q.l.c., in riferimento agli artt. 2 e 3 cost., dell’art. 13, r.d.l. 14 aprile 1939

n. 636, conv. in l. 6 luglio 1939 n. 1272 e dell’art. 9 commi 2 e 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come

sostituito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987 n. 74, nella parte in cui non includono il convivente “more

uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità, ancorché la

convivenza presenti i caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale. La mancata

inclusione del convivente “more uxorio” tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di

riversibilità trova infatti una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale

trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che nel caso “de quo”

manca, con la conseguenza che la diversità delle situazioni poste a raffronto rende non illegittima

una differenziata disciplina delle stesse (sent. n. 8 del 1996). Nemmeno può dirsi violato il

principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la

riferibilità del principio alla convivenza di fatto purché caratterizzata da un grado accertato di

stabilità (sentt. n. 310 del 1989 e 237 del 1986) non comporta un necessario riconoscimento al

convivente del trattamento pensionistico di riversibilità, che non appartiene certo ai diritti

inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 cost.”.

4 Così Corte cost., 12 gennaio 1977, n. 6, in Giur. cost., 1977, p. 33: “Non contrasta con il principio

di eguaglianza (dell’art. 3 cost.) la norma dell’art. 350 c.p.p., nella parte in cui consente che, in

aggiunta ai prossimi congiunti di cui all’art. 307, comma 4, c.p., possa astenersi dal deporre chi, nei

confronti dell’imputato o di uno dei coimputati, si trovi in una situazione affettiva di natura

familiare semplicemente di fatto ed oggettivamente identica a quella disciplinata dal cit. art. 350

c.p.p.”.

5 Assise Torino, 19 novembre 1993, in Arch. nuova proc. pen., 1994, p. 230 ss.

6 Trib. Roma, 20 novembre 1982, in Temi rom., 1983, p. 379 ss.; e Corte cost., 7 aprile 1988, n.

404, in Foro it., 1989, I, c. 2515. Ma, di recente, Corte cost., 14 gennaio 2010, n. 7, in Giust. civ.,

2010, p. 12, che dichiara manifestamente infondata la questione relativa all’art. 6, terzo comma,

della l. 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di

locazione del convivente del conduttore, anche quando non vi sia prole naturale.

7 Trib. Bolzano, 20 gennaio 2000, in Giur. mer., 2000, p. 818.

8 Sul tema, Cass. pen., 12 giugno 1987, in Cass. Pen., 1988, p. 1926, sul risarcimento del (solo)

danno morale soggettivo derivante da reato e non del danno patrimoniale derivante dall’uccisione

del partner; con riferimento, invece, a tutte le categorie di danno, Cass., 28 marzo 1994, n. 2988,

in Giur. it., 1995, I,1, c. 1366. Per una vicenda insolita, Trib. Venezia, 31 luglio 2006, in Nuova giur.

civ. comm., 2007, I, p. 864 ss., in tema di risarcimento del danno per perdita del convivente

all’interno di una relazione incestuosa.

9 Così Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2, in Guida dir., 1998, n. 8, p. 50: “Non è fondata in

riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2941, n. 1,

del Codice civile, nella parte in cui non prevede che il corso della prescrizione resta sospeso tra i

conviventi more uxorio”.

10 In questo senso, Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in relazione all’art. 30, primo comma, lett. c),

d.lgsl. 286/1998. Analogamente, sul diritto dell’immigrato irregolare, convivente more uxorio con

una cittadina italiana, a non essere espulso, si veda Cass. pen., 22 maggio 2008, n. 24710:

nonostante il dettato normativo di cui all’art. 19, secondo comma, d.lgsl. 286/1998 (secondo il

quale, non è consentita l’espulsione nei riguardi “degli stranieri conviventi con parenti entro il

quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana”), la Suprema Corte afferma che “La

convivenza “more uxorio” con una cittadina italiana non può costituire legittimo motivo ostativo

all’espulsione”. La pronuncia, peraltro, conferma la precedente Corte cost., 20 luglio 2000, n. 313,

in Foro it., 2002, I, c. 355, laddove: “Non è consentito estendere alla convivenza di fatto,

attraverso un semplice giudizio di equivalenza, la disciplina prevista per la famiglia legittima,

costituendo il primo un rapporto privo dei caratteri della stabilità e della certezza, nonché della

reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri, nascenti soltanto dal matrimonio, in seno,

appunto, alla famiglia legittima”.

11 Trib. Genova, 23 febbraio 2004, in Guida dir., 2004, n. 22, p. 61.

12 Così Cass, 2 gennaio 2014, n. 7, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 652, in analogia a Cass., 21

marzo 2013, n. 7214, in Fam. dir., 2013, p. 649.

13 Il riferimento è a Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. dir., 2010, p. 653; v. ancora Cass.,

15 marzo 2012, n. 4184, in Notariato, 2012, p. 504, che ha sancito che il matrimonio same sex

contratto all’estero non sia inesistente per l’ordinamento italiano, ma inefficace, giacché la

diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto naturalistico del matrimonio stesso. In

tema di matrimonio “ex post omosessuale” e per la meritevolezza dell’autodeterminazione di

genere anche sotto il profilo della conservazione dei legami affetti già costituiti, Cass., 6 giugno

2013, n. 14329, commentata in Rass. dir. civ., 2015, p. 762.

14 Così la già menzionata Cass. SS.UU., 17 luglio 2014, n. 16379, cit., dove le Sezioni Unite hanno

asserito che la stabile convivenza coniugale ultra-triennale “sani” la nullità dell’atto di matrimonio,

ancorché concordatario, così ostando alla “delibazione” di sentenze ecclesiastiche di nullità

matrimoniale.

15 Si tratta di una casistica diversificata: dagli affidamenti temporanei a coppie omosessuali

stabilmente conviventi (Trib. min. Bologna, 31 ottobre 2013, in Fam. dir., 2014, p. 273; e Trib. min.

Palermo, 4 dicembre 2013, in Fam. dir., 2014, p. 351), alle ipotesi di affidi sine die tramutati in

adozione mite (Trib. min. Bari, 7 maggio 2008, in Fam. dir., 2009, p. 393) o aperta (Trib. min.

Brescia, 21 dicembre 2010, in Rep. Foro it., 2011, voce Adozione ordinaria e in casi particolari, n.

57; Trib. min. Roma, 8 gennaio 2003, in Giur. mer., 2003, p. 1122; Trib. min. Napoli, 24 novembre

2007, in Fam. dir., 2008, p. 80), tramite il ricorso all’adozione in casi particolari dell’art. 44 lett. d) l.

ad. Sempre con lo strumento di cui alla lett. d) dell’art. 44 l. ad., la giurisprudenza ha autorizzato

l’adozione speciale del figlio del convivente omosessuale (Trib. min. Roma, 30 luglio 2014, in

Nuova giur. civ. comm., 2015, I, p. 109). Ancora in tema di omogenitorialità, la giurisprudenza

dimostra, invece, ambiguità nel riconoscimento (o meno) delle adozioni ordinarie costituite

all’estero (a favore di detto riconoscimento, App. Milano, 16 ottobre 2015, in www.articolo29.it;

contra Trib. min. Bologna, 10 novembre 2014, in Guida dir., 2015, 5, p. 15; in una posizione

intermedia, si veda Cass., 14 febbraio 2011, n. 3572, in Fam. dir., 2011, p. 697) e nella trascrizione

dell’atto di nascita del minore nato all’estero da coppia omosessuale tramite l’accesso alle

tecniche di p.m.a. eterologa (positivamente, App. Torino, 29 ottobre 2014, in Fam. dir., 2015, p.

822,) o tramite la maternità per sostituzione (a favore del riconoscimento dello status giuridico del

nato da surrogacy, Trib. Milano, 1° agosto 2012 e Trib. Milano, 6 settembre 2012, in Nuova giur.

civ. comm., 2013, I, p. 712; contra Cass. 26 settembre 2014, n. 24001, in Nuova giur. civ. comm.,

2015, I, p. 235).

16 Sul caso Corte Edu, 21 luglio 2015, Oliari c. Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, p. 575;

sulla giurisprudenza precedente, v. Corte Edu, 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, in Nuova

giur. civ. comm., 2010, p. 1337.

17 La norma, inoltre, si sarebbe potuta arricchire anche dell’ipotesi di cui all’art. 1916 c.c., in tema

di surrogazione dell’assicuratore, in virtù di quanto disposto dalla Corte cost., 21 maggio 1975, n.

117, in Foro it., 1975, I, c. 1561.

18 Così Cass. Pen., 22 luglio 2015, n. 32156, in Dir. pen. proc., 2015, 1390, con nota di A. ROIATI.

19 Cass., 3 gennaio 2001, n. 28, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 33.

20 Cass., 29 aprile 2005, n. 8976, in Resp. civ., 2006, p. 621.

21 Cass, 2 gennaio 2014, n. 7, cit., e Cass., 21 marzo 2013, n. 7214, cit.

22 Così Cass., 15 marzo 2006, n. 5632, in Fam. pers. succ., 2006, p. 995.

23 V. Corte cost., 30 luglio 2008, n. 308, in Corr. giur., 2008, p. 1661..

24 Corte Edu, 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo c. Italia, in Dir. umani e dir. int., 2014, p. 225.

25 Corte Edu, 21 gennaio 2014, Zhou c. Italia, in Minori giust., 2014, II, p. 268.

26 Corte Edu, 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti c. Italia, consultabile in

http://www.unionedirittiumani.it/wp-content/uplo-

ads/2014/11/Moretti_e_Benedetti_c_Italia_IT.pdf; Corte Edu, 27 gennaio 2015, Paradiso e

Campanelli c. Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p. 828.