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Le unioni civili

autore: V. Mazzotta

SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Dalla corte Cedu, alla corte costituzionale e alla corte di cassazione: l’influenza della giurisprudenza sovranazionale e interna sull’attività del legislatore. 3. Esiste in Italia un veto costituzionale al matrimonio egualitario?; 4. unioni civili: un matrimonio sotto altro nome?; 4.1. Cosa sono le unioni civili; 4.2. In particolare, le analogie con il matrimonio; 4.3. Divorzio senza separazione; 4.4. altre differenze rispetto al matrimonio: il doppio cognome, le modalità di costituzione, l’automatica conversione del matrimonio estero in unione civile, l’abolizione del dovere di fedeltà e di collaborazione, la disciplina transitoria; 5. La filiazione omogenitoriale: la cassazione apre le porte all’adozione in casi particolari ex art. 44 lett. d l. 184/1983.



1. Introduzione



Dopo un lungo e tormentato iter legislativo, iniziato nel 2013, e dopo oltre trent’anni d’attesa, è stata finalmente approvata la Legge 20 maggio 2016, n. 76 sulla Regolamentazione delle Unioni Civili tra Persone dello Stesso Sesso e sulla Disciplina della Convivenza, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale serie generale 218 del 21/5/2016 ed entrata in vigore il 5 giugno 2016. La vicenda parlamentare che ha condotto all’approvazione della legge è stata lunga e complessa, lo scontro fra le diverse forze politiche è stato duro e per giungere all’avallo finale è stato necessario operare alcuni stralci dal testo sottoposto all’esame del Senato, ma infine si è giunti alla approvazione, seppure il Governo sia dovuto ricorrere per ben due volte al meccanismo della fiducia. Che la battaglia sia stata particolarmente aspra e che per taluno l’approvazione della l. 76/2016 rappresenti una vera sconfitta è indirettamente dimostrato anche dalla recente ordinanza n. 149/2016 con cui la Corte Costituzionale si è dovuta cimentare con la peculiare questione conseguente al conflitto di attribuzione promosso da un gruppo di senatori contro alcune decisioni assunte durante l’iter legislativo sfociato nell’approvazione della legge, che, secondo i proponenti, avevano com portato la lesione delle prerogative spettanti a ciascun parlamentare. La Consulta ha dichiarato il conflitto inammissibile in quanto afferente a lesioni di norme regolamentari interne al Senato, come tali inidonee ad integrare le prospettate violazioni costituzionali. La novella costituisce per opinione maggioritaria la più importante riforma del diritto di famiglia italiano dal 1975 perché riconosce, solennemente e formalmente, tutela giuridica a diritti civili fondamentali della persona. I diritti fondamentali sono connaturati alla persona: il diritto li trova, ma non li crea, spettano all’uomo in quanto tali e vanno garantiti dallo Stato. Che si verta in materia di diritti fondamentali inviolabili è indiscutibile: lo si deduce anche dal fondamento del nuovo istituto, ravvisato per espresso dettato normativo nell’art. 2 (oltre che nell’art. 3) della Costituzione, come già affermato anche dalla Corte Costituzione nel 2010. Costituisce diritto inviolabile la tutela della dignità della persona: lo afferma anche l’art. 1 della Carta di Nizza, ossia la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europa laddove recita “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. E proprio di dignità umana stiamo parlando: un principio intangibile e che va inteso come diritto ad essere sè stessi: in quanto persona, anche l’omosessuale, al pari dell’eterosessuale, ha una propria dignità sociale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha eliminato l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali nel 1990: con questa decisione la scienza ufficiale ha riconosciuto come l’orientamento sessuale sia una «variante del comportamento umano», vale a dire una caratteristica neutrale della persona, come il colore degli occhi o della pelle. La manifestazione dell’orientamento omosessuale ha innegabilmente la stessa identica dignità della manifestazione dell’orientamento eterosessuale. L’omosessualità è una manifestazione della sessualità dell’individuo, e quindi è uno dei modi di manifestazione della personalità, che deve essere tutelata dall’ordinamento in quanto espressione della dignità sociale umana. D’altro canto, l’uomo deve essere considerato nella sua interezza, quale esso è e non quale dovrebbe essere secondo visioni filosofiche, religiose, culturali, anche se largamente condivise. E tale necessità impone di considerare parte integrante dell’identità della persona anche l’orientamento sessuale. Difficile sostenere il contrario.



2. Dalla corte Cedu, alla corte costituzionale e alla corte di cassazione: l’influenza della giurisprudenza sovranazionale e interna sull’attività del legislatore



Ma come siamo arrivati alla legge sulle Unioni Civili? Le fonti europee, ma soprattutto la giurisprudenza della Corte Europea sui Diritti dell’Uomo, interprete della CEDU (che certamente costituisce la fonte internazionale di maggior impatto sul diritto italiano della famiglia) hanno svolto una influenza determinante sulla giurisprudenza italiana, costituzionale, di legittimità e di merito, sino ad indurre il nostro legislatore ad intraprendere finalmente un’azione positiva in tema di tutela dei diritti delle coppie dello stesso sesso. La Corte Costituzionale italiana considera oramai la CEDU come criterio (interposto) per valutare la legittimità` costituzionale di norme e provvedimenti. I principi enunciati dalla CEDU, come interpretati dalla Corte EDU, entrano a far parte dei nostri principi costituzionali e sono richiamati spesso dalla Consulta allorché essa è chiamata al vaglio di legittimità costituzionale delle norme di legge ordinaria. Al contempo, i citati principi sono usati dal Giudice ordinario chiamato a interpretare in modo costituzionalmente orientato le disposizioni da applicare al caso concreto. Quindi, l’influenza della CEDU a monte e il reciproco incessante intreccio di influenze tra Corte Costituzionale, giurisprudenza di legittimità e di merito ha condotto all’approvazione del legge. Non è dunque scorretto affermare che la legge era un atto da un lato imposto dall’Europa, dall’altro “costituzionalmente dovuto”. La nostra Corte Costituzionale aveva infatti in due occasioni sollecitato il legislatore ad intervenire per regolamentare le unioni tra persone dello stesso sesso, così colmando un vuoto normativo divenuto inaccettabile alla luce del mutamento della realtà sociale, e l’ha fatto richiamando, appunto, anche la giurisprudenza CEDU in materia. La sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale rappresenta il punto di partenza dello stimolo all’attività legislativa: essa afferma la rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 2 Cost. delle unioni omosessuali e dà atto della necessità di tutelarle. Nello specifico, la Corte afferma che nelle “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost. deve comprendersi anche “l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, con la conseguenza che le singole persone componenti tale formazione sociale sono titolari del “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, diritto che, derivante immediatamente dall’art. 2, discende anche dall’art. 3 Cost., comma 1, laddove questo assicura la “pari dignità sociale” di tutti (i cittadini) e la loro uguaglianza davanti alla legge, “senza distinzione di sesso”, e quindi vieta qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e qualsiasi discriminazione fondata sull’identità o sull’orientamento omosessuale; tuttavia, fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto “inviolabile”, qualsiasi formalizzazione giuridica della unione omosessuale non può prescindere da una disciplina generale che spetta al Parlamento. Deve peraltro essere escluso, secondo la Corte, che l’aspirazione a tale riconoscimento giuridico “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”. Infine, e l’assunto è fondamentale, la Corte si riserva “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (ndr. come d’altro canto è avvenuto per le convivenze more uxorio), potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. Orbene, con la sentenza citata la Consulta rigetta l’eccezione di incostituzionalità del divieto di matrimonio egualitario, senza quindi osare sfidare il principio dell’eguaglianza formale tra omosessuali ed eterosessuali. Il divieto del matrimonio omosessuale non è fondato dalla Corte sull’assunto della diversità tra coppie omosessuali e coppie eterosessuali, bensì su una interpretazione originalista, certamente limitativa e discutibile, della nozione di “matrimonio”, richiamata nell’art. 29 Cost., ossia, in pratica, individuando l’essenza del matrimonio nell’eterosessualità. Ma la Corte, matrimonio a parte, dà ampia voce al principio di uguaglianza. Mai si legge o si ricava nel testo della sentenza che le coppie omosessuali esprimano esigenze diverse e siano meritevoli di un trattamento diverso rispetto alle coppie coniugate. Anzi, viene affermato espressamente che in presenza di necessità di trattamento omogeneo sarà garantito il rispetto del principio di eguaglianza tra le unioni omosessuali e le coppie coniugate. Con la successiva pronuncia n. 170 dell’11/6/2014, la Corte Costituzionale si riferisce nuovamente alle unioni omosessuali, dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della L. 164/1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), che impongono sostanzialmente il divorzio a seguito di sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, “anche allorchè, quindi, ove entrambi lo richiedano, non sia consentito ai coniugi di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, adeguatamente tutelante dei diritti della coppia”. Afferma poi la Consulta che spetta al legislatore individuarla, “con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina vigente, in quanto foriera di un deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti”. Dalla lettura delle due sentenze citate si ricavano in due principi rilevanti: da un lato la mancata previsione del matrimonio per le coppie omosessuali non si pone in contrasto né con la Costituzione né con i principi enunciati dalla CEDU (secondo la quale è riservata alla discrezionalità del legislatore nazionale l’individuazione della forma di tutela da apprestare alle coppie same sex); dall’altro, il monito al nostro legislatore a intervenire con urgenza introducendo nell’ordinamento una forma di tutela per le coppie dello stesso sesso che sia idonea a garantire i diritti civili fondamentali.

Anche la Corte di Cassazione ha svolto un ruolo propulsore di non poco conto. I principi sanciti dalla sentenza 138/2010 sono ripresi con la decisione n. 4184/2012, secondo la quale parti dell’unione, titolari del diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, possono chiedere al Giudice, a tutela di una situazione specifica e in relazione a ipotesi particolari, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata” (principio successivamente affermato anche dall’ordinanza 14329/2013 della Cassazione, e quindi oggi possiamo considerare assodato). Detta sentenza ribadisce poi un principio già espresso dalla Corte Edu nel caso Schalk e Kopf contro Austria, decisione del 24 giugno 2010, ossia che la relazione sentimentale e sessuale tra due persone dello stesso sesso rientra nella nozione di “vita familiare”, il cui rispetto è garantito dall’articolo 8 CEDU. Pertanto, costituisce violazione dell’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 (principio di non discriminazione) la mancanza di tutela delle coppie omosessuali e di riconoscimento adeguato. La Corte non esita ad affermare che l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la diversità di sesso è, insieme alla manifestazione della volontà, il requisito minimo “indispensabile” per “la stessa esistenza del matrimonio civile”, non è più adeguato alla “attuale realtà giuridica”. Successivamente con la sentenza 8097/2015 la Corte di Cassazione, giudice a quo nel giudizio di costituzionalità degli artt. 2 e 4 della l. 164/1982, ha risolto il caso sottoposto alla sua valutazione alla luce dei principi sanciti dalla decisione 170/2014 della Corte Cost., sancendo che i coniugi divenuti dello stesso sesso conservino i diritti e doveri propri del matrimonio, sottoposti tuttavia alla condizione risolutiva temporale costituita dalla futura regolamentazione legislativa delle unioni civili omosessuali. Ancora, nel 2015, con la sentenza n. 2400, la Corte di Cassazione, pur rigettando la richiesta di pubblicazioni matrimoniali svolta da una coppia dello stesso sesso coniugata all’estero, afferma che l’unione omo affettiva riceve comunque un diretto riconoscimento costituzionale dall’art. 2 Cost. che può acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione dei diritti fondamentali; l’operazione di omogeneizzazione può essere svolta dal giudice comune e non soltanto dalla Corte Costituzionale in quanto tenuto ad un’interpretazione delle norme non solo costituzionalmente orientata ma anche convenzionalmente orientata. La Corte precisa anche che spetta al legislatore ordinario nazionale determinare forme e modelli all’interno dei quali predisporre per le unioni tra persone dello stesso sesso uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni.



3. Esiste in italia un veto costituzionale al matrimonio egualitario?



Il nostro Legislatore, dunque, non poteva più rimandare il riconoscimento formale e solenne delle unioni tra persone dello stesso sesso, ma non era tenuto a privilegiare una forma rispetto ad un’altra: in altre parole non era obbligato a introdurre il matrimonio egualitario. Neppure in forza delle indicazioni provenienti dalla CEDU, poiché vige in Europa un modello pluralistico: la Corte ha ripetutamente affermato (da ultimo anche con la recentissima sentenza Chapin e Charpentier c. Francia, ricorso n. 40183/07, Corte Europea Dei Diritti Umani (quinta sezione), sentenza del 9 giugno 2016) che il legislatore deve tutelare i diritti delle persone dello stesso sesso, o mediante il matrimonio o con un istituto ad esso compatibile, così anche nella sentenza Oliari vs Italia, il cui fulcro motivazionale è che l’art. 8 CEDU è stato violato perché l’Italia, noncurante delle pressioni provenienti anche dalla corte costituzionale interna e dalle istanze che giungono dalla società civile, ha pervicacemente rifiutato qualsiasi tutela ai legami omosessuali. Ad ogni modo, la scelta optata con la novella non è certamente all’avanguardia, anzi è di retroguardia, perché lascia inalterati alcuni profili discriminatori, oltre ad essere lunga, cavillosa e prolissa, ma era anche l’unica possibile tenuto conto dell’attuale scenario politico nel nostro Paese. Il risultato è che permane la diseguaglianza e quindi il viaggio verso la piena uguaglianza prosegue e sarà raggiunta solo allorchè anche in Italia verrà regolamentato il matrimonio egualitario. Si tratta di ora capire se già oggi sarebbe stato costituzionalmente possibile o meno introdurre, anziché le unioni civili, il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 138/2010, condividendo il paradigma eterosessuale, esclude che dall’art. 29 Cost. discenda l’obbligo di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso. È vero, ma è anche vero che la Costituzione neppure lo impedisce, quanto meno se si interpreta la disposizione in senso evolutivo, e alla luce dei principi generali degli artt. 2 e 3. L’art. 29 Cost., lungi dall’essere una norma chiusa è all’opposto stata originariamente intesa come fattispecie aperta ai mutamenti sociali, vale a dire che deve essere interpretata alla luce dell’evoluzione dei costumi e dei cambiamenti sociali intervenuti in Italia negli ultimi decenni. L’art. 29 Cost definisce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, ma non cristallizza un modello di famiglia e non può essere interpretato alla luce del codice civile. Tanto si è scritto su questa norma e la dottrina ha offerto diverse interpretazioni del significato da attribuire a quello che costituisce un vero e proprio ossimoro, come autorevolmente sostenuto, poiché la formulazione è apparentemente contraddittoria: da un lato, la società naturale, che delinea un fenomeno sociale preesistente allo Stato, dall’altro il matrimonio civile, ossia una creazione del diritto, suscettibile di mutamento poiché, appunto, il diritto è mutevole. La combinazione delle due espressioni ha messo a dura prova giuristi di diverse epoche, ma un dato è oramai pacifico: l’intenzione dei costituenti era di concepire un’idea di famiglia aperta ai cambiamenti sociali e storici, se necessario, quindi, oggetto di revisione del suo regime secondo i mutamenti intervenuti, e innanzi alla quale il diritto si deve inchinare. Il riferimento alla naturalità della famiglia era stato dai costituenti inteso per rivendicare alla famiglia spazi e limiti di autonomia privata (Jemolo scriveva che la famiglia è un’isola che il mare del diritto può solo lambire…). Ricordiamo le parole di Aldo Moro in Assemblea Costituente, in relazione alla formula “società naturale”, secondo cui essa “non è affatto una definizione” ma è tesa a “definire la sfera di Competenza dello Stato nei confronti di una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita”. Dunque la Costituzione non definisce il matrimonio, né espressamente include tra i suoi requisiti la differenza di sesso tra gli sposi, seppure, certamente, il costituente a quell’epoca avesse in mente una coppia formata da due individui di sesso diverso perché questo era il modello insito nella comune accezione e nella tradizione sociale e giuridica del matrimonio, non essendosi a quell’epoca neppure profilata l’ipotesi dell’estensione del matrimonio alla coppia dello stesso sesso. Ma questo era appunto il modello conforme alla tradizione culturale e ai costumi sociali di quell’epoca: la tutela della tradizione non rientra nelle finalità dell’art. 29 Cost.. Parimenti discutibile è la tesi che fonda l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso sulla incapacità procreativa: la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio. La procreazione è soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e l’incapacità di avere dei figli rileva tutt’al più sotto il profilo dell’errore, che una parte può far valere per ottenere tutt’al più l’annullamento del vincolo. La diversità di sesso come condizione necessaria del matrimonio nasce allora, come anzidetto, da un’interpretazione tradizionale, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi del diritto canonico sul sistema civilistico. Il concetto di matrimonio è infatti per sua natura neutro, connaturato ai costumi e alle radici culturali, suscettibile di evoluzione nel tempo, e che quindi va interpretato necessariamente non in senso statico ma dinamico, di pari passo con l’evoluzione della società. Parimenti in continua evoluzione è il concetto di famiglia, come emerge dagli studi sociologici.

Quindi, la Costituzione non impone testualmente un modello esclusivamente eterosessuale del matrimonio. Il matrimonio omosessuale è nel frattempo divenuto realtà in molti Paesi del mondo, e anche in Italia il fenomeno delle unioni same sex non è certo una novità. Ancora: il concetto di famiglia è per sé mutevole nel tempo, le unioni tra persone dello stesso sono formazioni sociali costituzionalmente rilevanti (lo afferma testualmente la Corte Cost. con la sentenza 138/2010), la famiglia altro non è se non una particolare formazione sociale, e allora le coppie omosessuali sono famiglie. Al pari di quelle eterosessuali. La diversità di sesso non è un requisito del matrimonio e la capacità procreativa neppure: Se si condivide tale assunto, il divieto del matrimonio egualitario è difficilmente comprensibile. A fronte di una coppia che conduce una vita in comune, caratterizzata dal reciproco affetto e dalla scelta di condividere le proprie esistenze, di una situazione quindi assolutamente identica a quella di una coppia eterosessuale, negare il matrimonio è segno di una grave e inaccettabile discriminazione, un limite irragionevole all’esercizio della libertà personale.



4. Unioni civili: un matrimonio sotto altro nome?



Ci limitiamo in questa sede ad analizzare solo la prima parte della legge, ossia i commi da 1 a 35 dedicati alle unioni civili. Una premessa riguarda tuttavia l’intera legge, poiché ne definisce l’innovazione in generale. In forza della novella, oggi esistono tre modelli famigliari con rilevanza giuridica: - il matrimonio per la coppia eterosessuale, che si istituisce in forma solenne, con la celebrazione, regolato dagli artt. 79 ss c.c. e fondato sull’art. 29 Cost., che conferisce lo status di coniugato - l’unione civile riservata alle coppie dello stesso sesso, che si costituisce, ma sempre in forma solenne, mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni, tra due persone maggiorenni dello stesso sesso, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, fondata sull’art. 2 Cost. e che conferisce lo status di unito civilmente in forza della modifica dell’art. 86 c.c., e che va registrata - la convivenza di fatto tra due persone omosessuali o eterosessuali maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimoni o da un’unione civile, regolata dai commi 36-65 e fondata sull’art. 2 Cost, che non conferisce lo status familiae e per cui è prevista solo l’iscrizione anagrafica. Il testo finale della novella è palesemente il frutto di un compromesso politico e non soddisfa tutti, certamente è in più punti perfettibile e migliorabile: esso riproduce in larga misura lo statuto del matrimonio, ma con delle differenze. Il legislatore, ad esempio, rinuncia a regolare la filiazione, ovvero omette volutamente riferimenti a determinate norme o attua richiami superflui a disposizioni già vigenti, a sottolineare che le unioni civili sono cosa diversa dal matrimonio. In linea generale si sono voluti eliminare tutti i riferimenti simbolici al matrimonio nel timore di un’assimilazione, e lo si è fatto usando alcuni espedienti linguistici che rendono oltremodo difficoltoso, in taluni passaggi, interpretare le norme. Di fatto tuttavia, nulla cambia: le analogie con il matrimonio restano, e sono numerose, tanto che le unioni civili “all’italiana” sono state indicate da parte della dottrina come un “matrimonio sotto altro nome”. Ma il matrimonio è cosa diversa: il legislatore della novella ha regolato l’istituto delle unioni civili dotando le coppie dello stesso sesso di un’ampia tutela, ma non di tutela identica al matrimonio. Quando il legislatore sarà pronto per introdurre il matrimonio egualitario lo farà espressamente.



4.1. Cosa sono le unioni civili



Il comma 1 della legge 20/5/2016 n. 76 identifica il contenuto della legge, specificando che con essa viene introdotto sia l’istituto delle unioni civili, riservato alle persone dello stesso sesso che la disciplina delle convivenze di fatto, cui hanno accesso sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali. Le unioni civili sono riservate alle coppie dello stesso sesso: si tratta del formale riconoscimento della pari dignità giuridica e sociale degli omosessuali, titolari in quanto persone di diritti fondamentali che finalmente, con la legge in commento, il Legislatore garantisce e tutela, ispirandosi ufficialmente al modello tedesco. Le unioni civili sono un nuovo istituto di diritto di famiglia, riservato alle coppie dello stesso sesso; che si tratti di famiglia lo si evince anche dal comma 4 lett. c) che tra le cause impeditive per la costituzione dell’unione civile annovera la sussistenza di un rapporto di parentela, affinità o adozione tra le parti, dal comma 32 che modifica l’art. 86 c.c. in tema di libertà di stato vietando il matrimonio a chi è già vincolato da altro matrimonio o da un’unione civile tra persone dello stesso sesso precedente, dal fatto che l’unione civile sia causa di impedimento del matrimonio e viceversa (si veda il comma 33 che modifica art. 124 c.c.). Ma in tal senso depone anche il comma 12, che nel regolare i diritti e doveri delle parti dell’unione, espressamente menziona la necessità di concordare “l’indirizzo della vita famigliare”. Né l’aggettivo “specifica” che connota l’unione civile come formazione sociale ai sensi del comma 1 vale a smentire l’assunto per cui di famiglia si tratta. “Specifica formazione sociale” definisce cosa sono le unioni civili, che tali restano denominate. La qualificazione “specifiche” nulla toglie e nulla aggiunge, poiché di certo non oppone la nozione di unione civile alla famiglia, essendo la famiglia stessa una formazione sociale.

Semplicemente si è voluto sottolineare che, al pari del matrimonio e delle famiglie di fatto eterosessuali, anche le unioni omosessuali sono formazioni sociali (specifiche, per l’appunto, ossia dotate di autonomia giuridica propria) che rientrano nell’alveo protettivo degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Il riferimento alle formazioni sociali e (pleonasticamente) all’art. 2 Cost. è anche un “tributo” alla sentenza della Corte Costituzionale 138/2010 che su detto articolo (oltre che sull’art. 3 Cost.) fonda il riconoscimento della rilevanza giuridica della coppia omosessuale. La citazione degli articoli 2 e 3 Cost. quali referenti costituzionali delle unioni civili presumibilmente ha lo scopo di rimarcare le differenze rispetto all’istituto matrimoniale che nell’art. 29 trova il suo fondamento. In proposito si impongono alcune considerazioni: le unioni civili con il matrimonio hanno in comune l’omogeneità di fondo del legame di coppia, ossia un legame affettivo di natura famigliare (e in questo senso sono formazioni sociali di tipo famigliare) dal che non si può escludere l’applicazione a entrambe le fattispecie di una disciplina almeno in parte comune. Non era poi fondamentale il richiamo all’art. 3 Cost., poiché il principio di uguaglianza è sotteso a ogni legge della nostra Repubblica: si tratta di un principio cardine che deve ispirare l’interpretazione di tutto il nostro sistema legislativo in generale. Ad ogni modo, anche stante l’esplicito richiamo all’art. 3 Cost. le nuove norme andranno lette cercando di superare ogni ingiustificabile discriminazione tra unioni civili e matrimonio, poichè la distinzione tra unioni civili e matrimonio non giustifica disparità di trattamento irragionevoli: lo impone la Corte Costituzionale con la sentenza 138/2010. Il richiamo al principio costituzionale dell’uguaglianza impone che un eventuale trattamento differenziato debba rispettare i canoni di ragionevolezza, ossia un diverso trattamento è ammissibile solo se funzionale alla realizzazione di altri obiettivi costituzionali. Di conseguenza, il trattamento differenziato deve essere necessariamente finalizzato alla realizzazione del principio di uguaglianza, e spetta al Giudice applicare ed interpretare le norme alla luce dei citati criteri. Peraltro, la dottrina già da tempo aveva individuato il referente normativo della rilevanza giuridica delle unioni tra persone dello stesso sesso negli articoli 2 e 3 della Costituzione, dalla cui lettura coordinata scaturisce un modello di famiglia ordinato sul principio di libertà di espressione e di tutela dei valori della persona. In conclusione: con la legge 20/5/2016 n. 76, si è semplicemente introdotto un nuovo istituto di diritto di famiglia, diverso dal matrimonio ma per alcuni versi ad esso equivalente; vengono infatti riconosciuti, nel corpo normativo, tutti i diritti del matrimonio: i diritti patrimoniali, i diritti ereditari, la tutela del partner debole, e molto altro ancora.

In forza della clausola di equivalenza dettata dal comma 20, cuore pulsante della disciplina delle unioni civili, si estenderanno inoltre alle parti dell’unione civile tutte le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle contenenti la parola “coniuge”, “coniugi” o termine equivalente, ovunque ricorrano, quindi non solo nelle leggi ma anche negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi (in pratica tutte le norme in materia previdenziale, assistenziale di agevolazioni abitative o tributarie, relative all’immigrazione, e così via).



4.2. In particolare, le analogie con il matrimonio



Passando all’analisi del testo. Il corpo originario del cd. d.d.l. Cirinnà (che constava di due Capi: il Capo I sulle Unioni Civili, il II Capo sulla convivenza di fatto, sia eterosessuale che omosessuale, il tutto suddiviso in titoli e in articoli, ciascuno con la sua rubrica) è stato stravolto ed è confluito, con numerose modifiche, nel “maxiemendamento”, composto da un unico articolo, suddiviso in 69 commi di non agevole lettura. Da un lato il legislatore adotta la tecnica del rinvio, dall’altro riproduce integralmente il testo di norme già vigenti, dall’altro ancora interviene modificando o introducendo ex novo alcune norme: vengono riformulati gli articoli 86 e 124 c.c. in tema di libertà di stato (il primo) e di vincolo da precedente matrimonio (il secondo), è introdotto l’art. 230 ter in tema di diritti del convivente nell’impresa famigliare, viene integrato l’art. 712 c.p.c. sulla forma della domanda per interdizione e inabilitazione, alla legge 218/1995 è aggiunto l’art. 30 bis sui contratti di convivenza. In altri casi sono introdotti istituti completamente nuovi (ad esempio, sul doppio cognome). Iniziando l’analisi del testo dai profili che ricalcano la disciplina codicistica del matrimonio, si osserva come tendenzialmente uguale a quella dettata in materia di coniugio è la disciplina delle cause impeditive dell’unione. Il comma 4 infatti riproduce sostanzialmente gli articoli 85, 86, 87 e 88 c.c. Tra le cause impeditive, quindi, l’esistenza di altro matrimonio o unione civile, a ribadire che occorre la libertà di stato (e infatti è stato modificato anche l’art. 86 c.c.), l’interdizione di una delle parti per infermità di mente, la condanna definitiva per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte; da evidenziare che il riferimento di cui al comma 4 lett. c) alla sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all’art. 87, 1° co c.c., ossia il rapporto di parentela “stretto” avvalora l’idea per cui l’unione civile è una famiglia vera e propria, essendo sostanzialmente vietati legami che potremmo definire incestuosi. Il comma 5 individua nella nullità la conseguenza della sussistenza di uno degli impedimenti indicati al comma 4, ed estende al nuovo istituto le norme in materia di morte presunta (artt. 65 e 68 c.c.: ritroviamo dunque anche in materia di unioni civili quello che autorevole dottrina ha definito un “fossile giuridico”, ossia la previsione della nullità del nuovo matrimonio nel caso in cui la persona della quale fu dichiarata la morte presunta ritorni o ne sia accertata l’esistenza in vita), quelle in tema di matrimonio dell’interdetto (art. 119 c.c.), dell’impugnazione da parte dell’incapace di intendere e di volere (art. 120 c.c.), del matrimonio simulato (art. 123 c.c.), della legittimazione attiva all’azione di nullità da parte del PM (art. 125 c.c.), della separazione temporanea dei coniugi in pendenza del giudizio di nullità sul matrimonio (art. 126 c.c.), dell’intrasmissibilità dell’azione (art. 127 c.c.), del matrimonio putativo e della disciplina ad esso connessa (artt. 128, 129, 129 bis c.c.). Il comma 6 regola l’impugnazione dell’atto di costituzione dell’unione civile individuando i legittimati ad agire in senso analogo a quello previsto per il matrimonio: detta legittimazione attiva alla proposizione dell’azione di nullità dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, costituita in violazione del comma 4 ovvero dell’art. 68 c.c., è stata attribuita agli ascendenti prossimi, al pubblico ministero, oltre ovviamente alle parti, ed a tutti coloro che possono vantare un proprio interesse legittimo ed attuale. Il comma 7 parafrasa, per così dire, l’art. 122 c.c. ma non lo riproduce integralmente: esso regola l’impugnazione della parte il cui consenso sia stato “viziato” per esser stato estorto con violenza, indotto da timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla parte, ovvero dato per effetto di un errore sull’identità della persona o errore essenziale su qualità personali dell’altra parte. Individua in un anno il termine di decadenza per la proposizione dell’azione che decorre da quando la violenza o le cause che hanno indotto il timore sono cessate, ovvero l’errore è stato scoperto. La norma identifica poi cosa debba intendersi per errore “essenziale”, con qualche differenza rispetto all’art. 122 c.c.. In particolare, non è prevista l’anomalia o deviazione sessuale (evidentemente perché l’omosessualità stessa viene intesa dal legislatore come anomalia o deviazione sessuale) né lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore, presumibilmente perché trattasi di un’ipotesi assai remota, per non dire impossibile, tra parti dell’unione civile. Sotto il profilo dei diritti patrimoniali, l’equiparazione tra unione civile e matrimonio è pressoché piena. Nell’optare per il regime legale della comunione dei beni, il legislatore dà attuazione piena al principio di solidarietà ed uguaglianza. La scelta sul punto poteva tuttavia essere diversa, atteso che oramai da anni si discute in dottrina sull’opportunità di mantenere la comunione legale quale regime patrimoniale legale e la novella poteva rappresentare un’occasione per abbandonare il regime tradizionale optando per la separazione dei beni, che pare oggigiorno più rispondente alle esigenze della vita di coppia. Al pari dei coniugi le parti dell’unione civile possono scegliere una diversa convenzione patrimoniale, trovando piena applicazione, oltre che le regole sulla comunione legale, anche quelle sul fondo patrimoniale, comunione convenzionale, separazione dei beni e impresa famigliare: resta infatti integrale il rinvio alle sez. II, III, IV V e VI del capo VI del titolo VI libro I c.c.. In particolare, viene riprodotto l’art. 159 e 160 cc (sostituendo la parola sposi con parti dell’unione civile), invariato il riferimento agli articoli 162, 163, 164 e 166 (mentre non v’è alcun richiamo all’art. 166 bis sul divieto di costituzione di dote, istituto oramai desueto). Il comma 14 estende alla parte dell’unione civile la misura di protezione prevista dall’art. 342 bis c.c.: pur se apprezzabile l’intento del legislatore, la previsione è forse superflua poiché la norma codicistica era già di per sé espressamente applicabile anche al convivente. Il comma 15 prevede che nella scelta dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare debba preferire ove possibile la parte dell’unione civile. Viene poi attribuita alla parte la legittimazione attiva nei procedimenti di interdizione e inabilitazione, ma non anche nel procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno: in pratica, la parte unita civilmente rientra tra coloro che possono chiedere l’adozione della misura di protezione solo se stabilmente convivente con il potenziale beneficiario in forza degli artt. 406 e 407 c.c.. Il comma 16 sostanzialmente riproduce integrandolo l’art. 1436 c.c., annoverando tra i soggetti passibili di violenza, quale causa dell’annullamento del contratto, la parte dell’unione civile, i suoi ascendenti e discendenti. Al comma 17 viene esteso alla parte dell’unione civile il diritto a percepire l’indennità di mancato preavviso e il tfr di spettanza del partner lavoratore subordinato deceduto. Stante poi il richiamo che il comma 25 fa all’art. 9 l. 898/1970, deve ritenersi che qualora il partner lavoratore dipendente percepisca il tfr dopo il deposito della domanda giudiziale di divorzio (o la sentenza nel caso di domanda congiunta), l’altro, se parte debole avente diritto all’assegno divorzile e che non abbia nel frattempo contratto altra unione civile o matrimonio, abbia diritto al 40% della quota di tfr maturato in relazione agli anni di durata dell’unione. Il comma 18 applica alla parte unita civilmente il disposto di cui all’art. 2941 n. 1 c.c., sicchè nei rapporti reciproci resta sospesa la prescrizione. Il comma 19 estende alle parti dell’unione civile la norma sul matrimonio dello straniero (art. 116 c.c.), il regime degli alimenti in tal modo equiparandole al coniuge nella “gerarchia” dei soggetti obbligati ex art. 433 c.c., la previsione di cui all’art. 146 c.c. sull’allontanamento dalla residenza famigliare, quella relativa alle modalità di trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale e separazione dei beni (art. 2647 c.c.), dello scioglimento della comunione immobiliare tra coniugi (art. 2653, co. 1 n.4 c.c.) e sulla nota di trascrizione (art. 2659 c.c.). Il comma 21 riconosce i diritti successori al pari del matrimonio ed estende alle parti dell’unione civile la disciplina dei patti di famiglia. La previsione è di estrema rilevanza ed è espressione della logica solidaristica sottesa all’unione, la cui natura “famigliare” viene quindi implicitamente ribadita. La parte dell’unione civile è quindi successore legittimo e necessario e concorre con eventuali altri eredi, al pari del coniuge. Centrale è poi il comma 20, che introduce la cd. clausola di salvaguardia, rappresentando una sorta di norma di chiusura. L’incipit iniziale probabilmente è il frutto di una concessione a chi non voleva l’equiparazione tra unione civile e matrimonio, ma nulla sposta. Peraltro, il richiamo al principio di uguaglianza operato al comma 1 rafforza l’estensione delle norme sul matrimonio. Per il resto, la disposizione assicura l’equiparazione nei più svariati ambiti allorchè prevede che si applichino alle parti dell’unione le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle contenenti la parola coniuge, coniugi e termini equivalenti, ovunque ricorrano: nelle leggi, atti aventi forza di legge, regolamenti, atti amministrativi e nei contrati collettivi. Quindi sono estese alle unioni civili tutte le previsioni in materia assistenziale/previdenziale in senso ampio, dal ricongiungimento familiare alla cittadinanza italiana per lo straniero unito civilmente, dal congedo matrimoniale a tutte le prerogative in materia di lavoro, dagli assegni familiari a tutte le disposizioni fiscali, dalla disciplina sui carichi di famiglia alle imposte di successione e donazione, dall’impresa familiare alle numerose norme del codice civile in materia di contratti, prescrizione ed altro, dalle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari ai punteggi per i concorsi e i trasferimenti, dai trattamenti pensionistici, assicurativi e previdenziali al diritto di ricevere informazioni sullo stato di salute e le opportunità terapeutiche, dalle decisioni sulla salute in caso di incapacità, alle decisioni in caso di decesso sulla donazione di organi, sul trattamento del corpo e sui funerali, dal trattamento dei dati personali all’amministrazione di sostegno ed alla l. 104/1992, dai diritti in materia penitenziaria alle numerose norme in materia di diritto e di procedura penale. E così via. La norma prevede l’estensione “automatica” non si applichi alle norme del codice civile recanti la parola coniuge o similare se non sono espressamente richiamate dalla novella. Esclusa è altresì l’applicazione della l. 184/1983. Ma con la clausola di salvezza finale, su cui infra. La novella passa poi a disciplinare le cause di scioglimento dell’unione civile. Al pari del matrimonio l’unione si scioglie, innanzitutto, per morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell’unione (comma 22). Più interessante è invece la parte relativa allo scioglimento per cause “patologiche” perché rappresenta una delle più delicate del testo di legge, sia per le novità introdotte sia per la formulazione delle norme relative, in più punti piuttosto ambigue e di difficile interpretazione.



4.3. Divorzio senza separazione I



l decreto legge, nella veste originaria, estendeva anche alle unioni civili l’istituto della separazione prodromica al divorzio, più precisamente prevedeva all’art. 6 la diretta applicazione delle disposizioni di cui al Capo V (scioglimento del matrimonio e separazione), Titolo VI, del Libro I del codice civile, alla legge 1 dicembre 1970, n. 898, in materia di scioglimento del matrimonio, nonché le disposizioni di cui al Titolo II [procedimenti in materia di famiglia] del Libro IV del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni con legge 10 novembre 2014, n. 162”. Nella versione approvata, invece i comma da 23 a 26 hanno un testo piuttosto ambiguo e la separazione legale, sia consensuale che giudiziale, non è più prevista. Tale scelta, al di là del valore simbolico cui potrebbe riconnettersi un giudizio di disvalore, pare invece positiva poiché più moderna e duttile rispetto a quanto imposto ai coniugi che vogliono addivenire allo scioglimento del loro matrimonio. Il meccanismo introdotto resta tuttavia alquanto farraginoso o comunque, allo stato, di dubbia interpretazione. Due sono le fattispecie previste per poter chiedere il divorzio. Il comma 23 dispone che l’unione si scioglie nei casi previsti dall’art. 3 n. 1 e n.2 lettera a), c), d) ed e) della l. 898/1970: sono le ipotesi di cd. scioglimento immediato, sostanzialmente riconducibili ai casi di pronunce penali e divorzio conseguito all’estero da altro coniuge. Testualmente si tratta (art. 3 n. 1) di condanna penale all’ergastolo o alla reclusione superiore ai 15 anni anche con più sentenze, condanna per violenza sessuale o reati legati alla prostituzione, tentato omicidio, condanna per lesioni o maltrattamenti, violazioni di assistenza o circonvenzione del partner, ovvero (n. 2, lett. a) di assoluzione per vizio di mente per alcuni dei gravi reati sopra indicati, (lett c) proscioglimento per estinzione del reato, (lett. d) non punibilità per incesto in caso di mancanza del pubblico scandalo, (lett. e) casi in cui l’altro partner straniero abbia già ottenuto all’estero lo scioglimento del vincolo derivante dall’unione civile. Non v’è menzione dello scioglimento per inconsumazione (art. 3, n. 2, lett. f), mentre l’ipotesi dell’art. 3, n. 2, lettera g (rettificazione dell’attribuzione di sesso) è prevista dal successivo comma 26 come ipotesi di scioglimento automatico dell’unione.

Soprattutto la novella non fa alcun richiamo all’ipotesi di scioglimento del matrimonio a seguito di separazione (art. 3, n. 2 lett. b legge 898/70): chi scrive crede che non vi siano dubbi nell’affermare che l’istituto della separazione legale non opera per le unioni civili. Il problema interpretativo si pone tuttavia, alla luce della formulazione del comma 25, su cui infra. Tornando alle fattispecie in cui si può chiedere il divorzio, la novità è rappresentata dal comma 24, che disciplina “il procedimento di scioglimento dell’unione per dichiarazione di volontà”, scisso sostanzialmente in due fasi: le parti, congiuntamente o unilateralmente, bastando ai fini del divorzio anche la dichiarazione di uno soltanto, manifestano all’ufficiale di Stato civile la volontà di sciogliere l’unione; dopo tre mesi, singolarmente o congiuntamente potranno presentare ricorso per la scioglimento dell’unione. Viene introdotta un’ipotesi soggettiva di divorzio, sganciata da ogni riferimento a parametri oggettivi e quindi ad ampio spettro. In sostanza non deve ricorrere alcuna specifica ragione per poter chiedere lo scioglimento. Parrebbe altresì che la previsione si riferisca tanto all’ipotesi consensuale che a quella contenziosa, nel senso che in entrambi i casi la dichiarazione parrebbe necessaria. Il termine di tre mesi potrebbe essere interpretato come un periodo di “separazione” per consentire un eventuale ripensamento o per tentare di raggiungere una soluzione consensuale. La disposizione è laconica sotto diversi spetti: non precisa in che forma la volontà vada manifestata, se sia ammissibile la manifestazione di volontà a mezzo di un procuratore, né quali adempimenti deve compiere chi la riceve, né si comprende se il termine di tre mesi rappresenti una condizione di proponibilità o di procedibilità della domanda. Nulla è detto in merito ma evidentemente l’Ufficiale di Stato Civile dovrà rilasciare una copia della manifestazione di volontà ricevuta, trattandosi di un passaggio indispensabile per poter procedere col divorzio. Non individua l’ufficiale di Stato Civile competente. Saranno con ogni probabilità i decreti attuativi previsti dai comma 28 e 34 a far chiarezza sul punto. Decorsi i citati tre mesi, ciascuna parte potrà presentare ricorso per lo scioglimento dell’unione avanti il tribunale competente. Nel silenzio della norma, è lecito ritenere che il procedimento possa essere consensuale o contenzioso, quest’ultimo anche nel caso di dichiarazione congiunta. Il comma 25, che disciplina il procedimento, opera un rinvio ampio ma non integrale al rito divorzile. Nello specifico, si applica la legge 898/1970 limitatamente agli articoli - in quanto compatibili - 4, 5 commi 1° e dal 5° all’11°, 8°, 9°, 9° bis, 10°, dal 12° bis al 12° sexies: quindi, le norme sul procedimento, la pronuncia della sentenza e l’impugnazione, l’assegno divorzile, l’adeguamento Istat, l’una tantum, l’obbligo di deposito delle dichiarazioni dei redditi e le in dagini patrimoniali, la cessazione dell’assegno, il diritto all’assistenza sanitaria, le garanzie dell’assegno e l’esecuzione, la modifica delle condizioni di divorzio, l’assegna a carico dell’eredità, la decorrenza degli effetti della pronuncia, il diritto al TFR e alla reversibilità, la competenza per le modifiche, la competenza per le cause relative ai diritti di obbligazione, l’applicazione delle legge anche allo straniero unito a cittadino italiano la legge nazionale del quale non disciplini la scioglimento dell’unione, la tutela penale. Se fino a questo punto tutto pare chiaro, i dubbi interpretativi sorgono allorchè la norma prosegue prevedendo l’applicazione - sempre in quanto compatibile, come disposto dall’inciso iniziale - delle disposizioni di cui al Titolo II del libro IV del codice di procedura civile, oltre che degli articoli 6 e 12 della legge 162/2014. Taluno ne ha dedotto che alle unioni civili si applicherebbe quindi l’istituto della separazione anche dal punto di vista sostanziale, ma detta tesi non è a parere di chi scrive condivisibile. La separazione non è applicabile alle unioni civili per espressa esclusione (si veda il comma 23) e una diversa interpretazione cozzerebbe con lo spirito della legge, anche stando alla lettura delle relazioni parlamentari; altra dottrina ipotizza l’applicabilità delle norme sulle separazione relativamente ai soli profili procedurali, altri condivide detta conclusione ma esclude che sia applicabile il modello della separazione consensuale. Ancora, un illustre autore ritiene che il richiamo agli artt. 706 - 742 bis c.p.c. riguardi, appunto poiché compatibili, gli articoli 712-720 bis (laddove coniuge sarebbe da intendersi parte unita civilmente), 735-736 (rapporti patrimoniali tra coniugi) e 736 bis (ordini di protezione). Invero, il richiamo operato dal comma 25 alle norme del Titolo II del libro IV del codice di procedura civile è previsto “in quanto compatibile”: non sarebbero quindi richiamate le norme da 706 a 711 c.p.c. in quanto incompatibili, poiché, appunto, per le unioni civili è previsto lo scioglimento diretto. Detto assunto troverebbe conferma anche nei lavori preparatori dell’originario DDL n. 2081 ove si precisa che “lo scioglimento dell’unione civile è regolato dalle stesse disposizioni vigenti in materia di scioglimento del matrimonio”. Sempre in materia di scioglimento, va segnalato che il comma 26 dispone, del tutto irragionevolmente, che l’unione si sciolga automaticamente con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso, senza prevedere tuttavia il passaggio da unione a matrimonio. Infatti, il comma 27 dispone che laddove la rettificazione intervenga nell’ambito di una coppia coniugata (che da eterosessuale diviene omosessuale), qualora le parti manifestino la volontà di non sciogliere il matrimonio o cessarne gli effetti civili, si instauri automaticamente un’unione civile. Sparisce quindi il cd. Divorzio imposto. Il legislatore ha recepito le indicazioni della Corte EDU ma anche quelle della nostra Corte Costituzionale, che con la sentenza 170/2014.



4.4. Altre differenze rispetto al matrimonio: il doppio cognome, le modalità di costituzione, l’automatica conversione del matrimonio estero in unione civile, l’abolizione del dovere di fedeltà e di collaborazione, la disciplina transitoria



Rispetto alla disciplina del matrimonio vi sono poi altre sostanziali differenze. Alcune sono di poco conto, altre rappresentano un’innovazione positiva rispetto alla disciplina del matrimonio, altre invece, a parere di chi scrive, seppure da qualcuno interpretate positivamente, sono espressione del disvalore che parte delle forze politiche continuano ad attribuire alle unioni tra persone dello stesso sesso. Innanzitutto costituisce una novità senz’altro positiva la disciplina del doppio cognome di cui al comma 10: mentre nel matrimonio continua ad essere imposto alla moglie ed ai figli il cognome del marito, nell’unione civile le parti stabiliscono liberamente il cognome della famiglia. La Consulta da tempo ha rilevato l’incompatibilità con la Costituzione della disciplina del cognome nel matrimonio, non dichiarandone l’illegittimità soltanto perché mancava una disciplina alternativa, che spetterebbe al legislatore introdurre. Ora la regolamentazione alternativa c’è: la Corte, in ipotesi, potrebbe persino dichiarare illegittima la disciplina del cognome nel matrimonio, imponendo ai coniugi l’applicazione di quella prevista per le unioni civili. Peculiare è poi la disciplina della costituzione dell’unione civile. Il comma 2 è laconico allorchè semplicemente prevede che la costituzione (e non celebrazione, a sottolineare la differenza col matrimonio) avverrà mediante dichiarazione avanti all’ufficiale di Stato Civile e alla presenza di due testimoni. In primo luogo correttamente all’unione civile sono ammessi solo i maggiorenni. Per il resto, non sono dettate regole sul “rito” (ad esempio, non è prevista una formula particolare né la lettura dei commi che indicano i diritti e doveri delle parti), non sono previste le pubblicazioni, non è disciplinato il regime delle opposizioni né v’è alcun richiamo alla promessa di matrimonio. Il successivo comma 3, prevede la registrazione degli atti di unione civile nell’archivio di stato civile, ma non specifica in che parte, omissione non di poco conto se si considera la funzione di pubblicità verso i terzi che i registri assolvono.. Sarà dunque il legislatore delegato in forza del comma 28 lett. A) a dover far chiarezza, adeguando le disposizioni dell’ordinamento di stato civile in materia, appunto, di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni. Naturalmente sarebbe auspicabile che venisse introdotto ex novo un registro delle unioni civili, come d’altro canto è prassi nei Paesi che hanno introdotto l’istituto delle unioni civili. Tra i punti critici ve ne sono altri. In primis il comma 28 lettera b) che, nel prevedere la modifica delle norme d.i.p. affinchè venga applicata ai matrimoni celebrati all’estero la disciplina delle unioni civili, ha inteso risolvere autoritativamente l’annosa questione del riconoscimento dell’efficacia, nel nostro Paese, degli atti di matrimonio contratti all’estero, dove è consentito, da coppie omosessuali. Fino all’emanazione della novella, in forza di una giurisprudenza consolidata, le coppie dello stesso sesso legalmente coniugate all’estero non potevano ottenere la trascrizione del matrimonio nei registri di stato civile italiani.

Sia tuttavia consentita una osservazione. Cosa porta una coppia a sposarsi all’estero pur sapendo che il proprio matrimonio non avrà efficacia nel Stato di provenienza? È chiaro che si tratta della volontà di dare piena attuazione all’identità e dignità personale per mezzo del riconoscimento e della legittimazione della relazione di coppia. È dunque altrettanto chiaro che la pretesa di trascrizione dello status coniugale acquisito all’estero rappresenta la sacrosanta rivendicazione dell’attuazione della piena uguaglianza rispetto alle coppie eterosessuali e della garanzia del mantenimento dei diritti acquisiti di fronte ad un diverso ordinamento. È lecito allora chiedersi se la prevista conversione del matrimonio estero in unione civile sia una soluzione corretta, specie se non accettata dalle parti che, sposandosi all’estero, hanno optato per il matrimonio, che resta cosa diversa dalle unioni civili introdotte con la Novella, le quali, pur avendo forti analogie con l’istituto matrimoniale, non sono “il matrimonio”. Ne conseguono possibili interferenze con il diritto internazionale privato, poiché sarà difficile alla luce delle norme d.i.p. ritenere che il matrimonio tra persone dello stesso sesso sia veramente inefficace in Italia. Se poi è un matrimonio celebrato tra due persone cittadini di altri stati dell’UE, si pone il problema della violazione dei diritti fondamentali dei cittadini UE a non subire discriminazioni in ragione della loro nazionalità e quello della libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri. Una delle principali differenze tra unioni civili e matrimonio attiene ai doveri personali conseguenti al vincolo. Infatti, rispetto all’art. 143 c.c., il comma 11 della nuova legge non contempla il dovere di collaborazione e quello di fedeltà, ma solo l’obbligo reciproco di assistenza morale e materiale, coabitazione, contribuzione ai bisogni comuni, e, al comma 12, di concordare l’indirizzo della vita famigliare e fissare la residenza comune. In via di premessa, va ricordato come i doveri di cui all’art. 143 c.c. sono specificazioni del generale dovere di solidarietà tra i partner, e vanno globalmente letti ed intesi. Ciò detto, l’omissione del dovere di fedeltà non è casuale, ma certamente voluta da coloro che alla legge erano contrari, ed ha quindi un chiaro valore simbolico: differenziare le unioni civili dal matrimonio, come se le parti di un’unione civile non vivano il loro legame sentimentale con la stessa serietà di una coppia eterosessuale sposata. V’è insomma un implicito giudizio di disvalore da parte del legislatore. Privare le coppie same sex dell’obbligo di essere fedeli non vuol dire alleggerirle di un onere fastidioso ma è come dichiararle incapaci di condurre la loro vita di coppia in modo dignitoso ed onesto, come se, in pratica, i partner omosessuali non fossero in grado di impegnarsi seriamente in una relazione di coppia, rispettosa l’uno dell’altro. Un’ unione per scherzo.

Il rischio è che le relazioni omoaffettive vengano percepite dall’opinione pubblica come minoritarie, incapaci, per natura, di esprimere un vincolo reciproco analogo a quello del matrimonio vero e proprio. E ciò andrebbe ad avallare l’opinione di coloro che ancora ostinatamente rifiutano la pari dignità sociale della coppia dello stesso sesso. Va detto che una parte della dottrina ha accolto con favore l’eliminazione del dovere di fedeltà, interpretandola come la presa d’atto che una regolamentazione del diritto di famiglia scritta nel 2016 può abbandonare una norma - ossia l’obbligo di fedeltà - che si può oggi considerare superata per il diverso modo di vivere il rapporto di coppia. Tale visione sarebbe avallata dalla considerazione che la previsione del dovere di fedeltà nasce come diritto soggettivo del marito alla fedeltà sessuale della moglie: si ricorda come la Consulta, già nel 1961, con la sentenza n. 64, aveva rigettato l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 559 c.p. ritenendo, in relazione all’art. 3 Cost., che il diverso trattamento dell’infedeltà della moglie rispetto a quella del marito fosse giustificato dalla diversità delle due situazioni, rappresentando, il comportamento della moglie “offesa più grave” che non l’infedeltà del marito e ritenendo, in relazione all’art. 29 Cost., che l’infedeltà della donna, ancor più di quella dell’uomo, costituisse un fattore di disgregazione dell’unità familiare, anche in ragione del pericolo che un gravidanza causata da terzi avrebbe comportato l’inserimento nel nucleo famigliare di prole non nata dall’unione coniugale. Successivamente la Corte aveva mutato orientamento (sentenza 126 del 19/12/1968), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 559, 1° e 2° co c.p., rilevando che la discriminazione tra infedeltà del marito e della moglie violasse il principio di uguaglianza e quindi fosse di grave nocumento all’unità della famiglia, in quanto lesiva della dignità della donna che veniva posta in uno stato di inferiorità. Con gli stessi argomenti, la Corte (sentenza n. 147/1969) aveva dichiarato l’incostituzionalità anche degli art. 151, 2° co. c.c. dichiarando di conseguenza illegittimi gli artt. 559 3° co. c.p. e 560 1° co. c.p. c.p. che punivano l’adulterio della moglie e il concubinato del marito. La fedeltà quindi nulla avrebbe a che fare con la stabilità del rapporto, sarebbe un concetto superato dai costumi nonché il frutto di una concezione illiberale del diritto che non dovrebbe occuparsi della sfera intima della coppia. Il dovere di fedeltà sarebbe inoltre incoercibile e i coniugi possono scegliere di comune accordo di derogarvi. Non può esserci insomma una morale di Stato che obbliga alla fedeltà. Ma è possibile anche una diversa interpretazione. La fedeltà, oggi, va intesa non solo come dovere di astenersi dall’avere rapporti sessuali con terzi, ma più in generale come impegno di devozione, ossia espressione dell’impegno di considerare il coniuge come parte di un progetto di vita familiare condiviso. Fedeltà intesa come fiducia, insomma come lealtà reciproca. Di talchè la fedeltà sconfina nel dovere di assistenza morale e materiale, che la nuova legge impone anche alle parti dell’unione civile. Analoghe considerazioni valgono per il dovere di collaborazione, anch’esso annoverabile nell’assistenza morale e materiale. Si può quindi sostenere che dovere di fedeltà e di collaborazione permangono anche tra le parti dell’unione civile, nonostante non siano espressamente menzionati dalla legge. Peraltro, la violazione dei doveri personali nell’ambito dell’unione civile non comporta come conseguenza l’addebito, atteso che la separazione personale non rientra tra le cause di scioglimento dell’unione. Ma può rilevare sotto diverso profilo, ossia quello della responsabilità endo famigliare ravvisabile a fronte della lesione di diritti costituzionalmente rilevanti. Infine, il comportamento tenuto da uno delle parti in violazione dei doveri personali potrebbe essere valutato dal giudice anche ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio, stante il richiamo che il comma 25 fa all’art. 5 della l. 898/1970: in sostanza, nelle valutazioni del Giudice del divorzio rientrano anche le ragioni della decisione (e dunque l’eventuale comportamento contrario ai doveri sanciti - anche implicitamente - dal comma 11). Peculiare è anche la disposizione relativa all’entrata in vigore della novella, ossia il comma 35 che va letto in combinato disposto con i commi 28 e 34. Il comma 28 prevede una delega al Governo, entro sei mesi dalla data in vigore della legge per l’ulteriore regolamentazione dell’unione civile in punto di adeguamento alla disciplina della novella delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, di modifica e riordino delle norme di diritto internazionale privato prevedendo l’automatica applicazione della disciplina italiana delle unioni civili ai matrimoni esteri, unioni civili o altro istituto analogo e, infine, di modifica e integrazione normativa per il coordinamento con la novella delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti. La norma va coordinata con il successivo comma 34, relativo all’attuazione transitoria: nelle more dell’emanazione dei decreti attuativi, uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, e da emanare entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge, dovranno stabilire le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile. La finalità è evidentemente quella di consentire la costituzione delle prime unioni, a fronte della disciplina alquanto lacunosa dettata dal comma 3 della legge. Le disposizioni transitorie risultano necessarie nell’attesa dei decreti legislativi di cui al comma 28. Il comma 35 prevede, per l’entrata in vigore, la decorrenza del normale periodo di vacatio legis, ma, allorchè dispone che i commi da 1 a 34 acquistino efficacia già a partire dall’entrata in vigore della legge, mira a scongiurare le conseguenze della mancata adozione dei decreti attuativi. È evidente quindi che detti decreti non rappresentano una condizione di efficacia della legge. E se non dovessero essere adottati, espletando la legge 76 già tutti gli effetti che le sono propri già dalla data dell’entrata in vigore, qualsiasi Tribunale non potrebbe comunque sottrarsi all’integrale applicazione della novella.



5. La filiazione omogenitoriale: la cassazione apre le porte all’adozione in casi particolari ex art. 44 lett. d l. 184/1983



La più grande differenza rispetto al matrimonio resta la mancata regolamentazione della filiazione. Il Legislatore, per ragioni squisitamente politiche, ha stralciato dal testo definitivo della legge l’art. 5 del DDL 2081 che estendeva alle coppie dello stesso la possibilità di adottare il figlio del partner secondo quanto previsto per la coppia coniugata dall’art. 44 lett. B) della l. 184/1983. Sarebbe stata una tutela minimale, sarebbe stato molto meno di un pieno riconoscimento della piena legittimità della genitorialità a prescindere dall’orientamento sessuale, ma avrebbe rappresentato un passo avanti verso la realizzazione della piena tutela dei figli. Perché il punto è questo: non si tratta di tutelare il diritto della coppia omosessuale alla filiazione, ma il diritto dei figli della coppia omosessuale ad avere due genitori che si assumono nei loro confronti pari diritti, doveri e responsabilità. Si tratta insomma di tutelare il best interest of the child. I bambini sono tutti uguali, anche quelli con due mamme e due papà. E i figli delle coppie omosessuali sono una realtà, molto più diffusa di quanto non si creda. Non ci sono peraltro studi scientificamente validi che comprovino la nocività per un bambino di avere due genitori dello stesso sesso. Ma la carenza di tutela, affidata oggi esclusivamente alla discrezionalità del Giudice, si risolve in una grave discriminazione in danno ai bambini, l’unica rimasta se è vero che, a seguito della riforma della filiazione è stata superata ogni distinzione (o quasi) tra figlio legittimo e figlio naturale. La legge 76 omette di regolamentare la filiazione omogenitoriale, tuttavia, a una lettura attenta, i figli delle parti dell’unione civile sono considerati in due punti: il comma 19 rinvia all’art. 146 c.c. il cui terzo comma consente al giudice di sequestrare i beni della parte dell’unione civile che allontanandosi dalla residenza familiare non garantisca a norma dell’art. 147 l’adempimento dei «doveri verso i figli». Il comma 25 della Legge rinvia inoltre espressamente all’art. 12 ter della legge 1 dicembre 1970, n. 898 in materia di pensione di reversibilità, stabilendo il diritto di ognuno dei genitori, in caso di morte del figlio, ad una quota del 50% della pensione maturata dal figlio. Delle due l’una: o si tratta di una svista del legislatore, oppure il legislatore aveva previsto la possibilità di due genitori, anche dello stesso sesso. Fondamentale è poi quanto disposto dal comma 20, che da un lato esclude l’applicazione alle parti dell’unione civile della l. 184/1983, dall’altro, all’ultimo inciso, espressamente dispone “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozioni dalle norme vigenti”. In sostanza, pur rinunciando a una regolamentazione esplicita, il Legislatore salva la prassi di alcuni Tribunali per i Minorenni che, innanzi alla domanda della coppia genitoriale omosessuale che chiede il formale riconoscimento del legale tra il bambino e il genitore non biologico, applicano l’art. 44 lett. d) della l. 184/1983 che disciplina la cd. adozione in casi particolari di un minore di età nel caso in cui sia impossibile l’affidamento preadottivo. Ad ammettere la possibilità di applicare alle coppie same sex l’art. 44 lett. d) l. 184/1983 è stato per primo il Tribunale per i Minorenni di Roma con un provvedimento del 30/7/2014, secondo il quale il presupposto dell’impossibilità di affidamento preadottivo non farebbe riferimento alla sola impossibilità di fatto relativa al minore che si trova in stato di abbandono di trovare una famiglia adottiva (a causa dell’età, di un’infermità, ecc..), ma anche alla cd. impossibilità di diritto, riferita ai casi in cui il minore non si trova in stato di abbandono, esistendo una famiglia che lo accudisce o comunque un soggetto che esercita la responsabilità genitoriale e con il quale un legame affettivo esiste. Di fatto il Giudici applicano la legge già esistente, senza discriminare in base all’orientamento sessuale dei genitori, dando rilievo all’interesse del minore che nasce e cresce nell’ambito di un contesto famigliare sano e positivo. Il Tribunale per i Minorenni di Roma con la sentenza in oggetto, sottolineando come l’evoluzione giurisprudenziale dell’art. 44, lett. d), l. 4.5.1983, n. 184 abbia attribuito la possibilità di effettuare una adozione non legittimante al convivente eterosessuale del genitore biologico del minore (ma anche al genitore single) sulla base del dato che «il trattamento privilegiato accordato al matrimonio deve trovare un limite nei diritti inviolabili del minore, che non può subire effetti lesivi da un’interpretazione restrittiva della norma» - estende tale possibilità al convivente omosessuale del genitore biologico. Tale estensione presuppone comunque l’accertamento, nel caso concreto, del superiore interesse del minore, dovendosi ritenere che gli effetti negativi sullo sviluppo del bambino, derivanti dalla circostanza di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, appaiono più frutto di un pregiudizio che di certezze scientificamente acquisite (principio affermato anche dalla Suprema Corte nella sentenza 601/2013) anche sulla base delle pronunce della Corte costituzionale e della Corte EDU (sentenza X e altri c. Austria). Dalle prime, in particolare dalla sentenza 138/2010, si trae il diritto fondamentale di vivere liberamente la condizione di coppia, dalle seconde il principio in base a cui il divieto di adozione, fondato sull’orientamento sessuale degli adottanti, determina una limitazione nel godimento dei diritti riconosciuti dall’art. 8, limitazione che, se priva di una giustificazione «particolarmente grave e persuasiva», costituisce, alla luce della Convenzione, che, quale «strumento vivente» va interpretata tenendo presenti le attuali condizioni della società, una illegittima discriminazione. Sono seguite circa una decina di sentenza enuncianti identico principio. La sentenza del 30/7/2014 è stata impugnata e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Con la sentenza del 22 giugno 2016 n. 12962 la Corte di Cassazione conferma in via definitiva l’interpretazione dell’art. 44 lett. d) adottata dai giudici di merito e confermata in sede di gravame. Due sono le questioni affrontate dalla Corte: la prima attiene il presunto conflitto di interessi fra la minore e la mamma, che intendeva ottenere il riconoscimento giuridico dell’unione sentimentale con la propria partner, paventato dalla Procura che quindi chiedeva che la minore fosse rappresentata in giudizio da un curatore. La questione viene ritenuta infondata dovendosi escludere che un conflitto possa sussistere in re ipsa: i casi di adozione ex art. 44 lett. d) mirano a dare un riconoscimento giuridico - previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore - a relazioni affettive continuative e di natura stabile instaurate con il minore, ossia a consolidare, se ci sono le condizioni, legami preesistenti ed evitare che si protraggano situazioni di fatto non regolate dal diritto. Non v’è quindi alcuna incompatibilità d’interessi In secondo luogo, riprendendo i passaggi della sentenza del Tribunale per i Minorenni, la Corte interpreta l’art. 44 lettera d), affermando che l’impossibilità di procedere ad affidamento preadottivo deve essere intesa come impossibilità anche giuridica, e non solo di fatto (cioè derivante da una situazione di abbandono in senso tecnico). Oggi quindi a tutti i bambini nati nella famiglia omogenitoriale viene data la certezza di avere due genitori e la garanzia che i loro diritti verranno tutelati. Peraltro, come evidenziato da un illustre giurista, in forza della disposizione contenuta nel comma 20, v’è ora certezza che l’indirizzo avallato dalla Suprema Corte non viene e non verrà modificato dalla nuova legge, posto che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione”. È la vittoria dei bambini quindi, anch’essi titolari di diritti fondamentali riconosciuti anche dalle Convenzioni internazionali, oltre che dalla nostra Carta Costituzionale e dalla giurisprudenza interna, che impongono di proteggere sempre il best interest of the child. Se la strada è spianata, non possiamo escludere che prima o poi il legislatore non faccia cadere anche il divieto dell’adozione piena. Un importante passo avanti, insomma, verso la piena uguaglianza e l’affermazione della pari dignità della famiglia omosessuale.