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Separazione: idoneità della disaffezione unilaterale a determinare l'intollerabilità della convivenza (Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2014, n. 1164)

Martedì, 18 Febbraio 2014
Giurisprudenza | Separazione dei coniugi | Legittimità
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 In sede di giudizio di separazione non è necessaria la sussistenza di una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una delle parti, tale da rendere intollerabile la convivenza, pur desiderando l'altro coniuge continuarla. L'atteggiamento di disaffezione e distacco unilaterale può essere caratterizzato semplicemente dalla presentazione stessa del ricorso e dal successivo comportamento processuale in riferimento alle risultanze (negative) del tentativo di conciliazione. In tal caso, poiché risulta evidente il venir meno di quel principio del consenso che, dopo la riforma del 1975, caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale, il giudice non può che prenderne atto.



Cass. civ., sez. I, 21 gennaio 2014, n. 1164

Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In un procedimento di separazione personale tra M.R. e T.F., la Corte d'Appello di Ancona, con sentenza in data 29/10/2008, confermava la sentenza del Tribunale di Ancona in data 27/11/2006, che aveva pronunciato la separazione giudiziale tra le parti, condannando il marito a versare alla moglie assegno mensile di mantenimento per l'importo di Euro 350,00.

Ricorre per cassazione il T..

Resiste con controricorso e propone ricorso incidentale la M..

Resiste con controricorso al ricorso incidentale il T..

Entrambe le parti hanno depositato memoria per l'udienza.

Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 151 c.c. nonchè vizio di motivazione, affermando che il giudice deve verificare i fatti obbiettivi che hanno condotto all'intollerabilità della convivenza, la quale non è implicita nella volontà di un coniuge di separarsi.

Con il secondo motivo, violazione dell'art. 115 c.p.c., comma 2, censurando l'affermazione del giudice a quo, come interpretata dal ricorrente stesso, nel senso che la volontà di separarsi, manifestata da una persona sessantenne, con prole, non potrebbe che dipendere, necessariamente, da una sopravvenuta disaffezione verso il proprio coniuge, provocata da una situazione obbiettivamente intollerabile, non già da una mero capriccio o da altri fattori.

Come è noto, a fronte di una disciplina anteriore, che nettamente privilegiava l'elemento della colpa (anche se una parte seppur minoritaria della giurisprudenza aveva individuato la ratio della separazione stessa nella esigenza del coniuge di essere affrancato da una convivenza divenuta intollerabile: tra le altre, Cass. N. 968 del 1962), l'attuale disciplina, a seguito della riforma del 1975, ha escluso tale elemento, introducendo il profilo dell'intollerabilità della convivenza (anche se ha considerato, seppur solo a richiesta di parte, l'elemento dell'addebito).

Se dapprima parte della giurisprudenza (tra le altre, Cass. n. 3348 del 1978) non parve accorgersi del profondo salto di qualità introdotto dalla nuova disciplina, e così si interpretò il disposto dell'art. 151 c.c., comma 1, come un semplice ampliamento delle ipotesi già espresse nella originaria formulazione, col passare del tempo, si è andato sempre più consolidando un altro atteggiamento, che sottolinea la profonda differenza dell'attuale disciplina rispetto all'anteriore. E questa è indubbiamente la posizione più condivisibile: non è tanto ai comportamenti che si riferisce l'art. 151 c.c., quanto alla situazione di intollerabilità della convivenza che pur frequentemente ne è conseguenza. E in tale prospettiva si deve osservare che possono bensì determinati comportamenti, contrari ai doveri matrimoniali, condurre all'intollerabilità della convivenza, ma pure altri fatti che nulla avrebbero a che vedere con la violazione degli obblighi matrimoniali (ad. es. diversità di cultura tra i coniugi, incompatibilità di carattere, ecc...), e, d'altro canto, non tutte le violazioni degli obblighi familiari dovrebbero necessariamente condurre a tale risultato. Senza contare che nell'attuale disciplina nessuna differenza è posta tra coniuge "colpevole" o "incolpevole", se di "colpa" si deve ancora parlare (rectius tra coniuge che ha o non ha violato i doveri matrimoniali);

e pertanto anche il coniuge "colpevole" può chiedere la separazione, affermando che proprio il suo comportamento ha condotto all'intollerabilità della convivenza.

Ma a questo punto conviene soffermarsi sul significato di tale espressione, sulla sua valenza oggettiva o soggettiva, considerata talora in concreto con riferimento al coniuge che richiede o che subisce la separazione, talora, in astratto, richiamandosi il criterio, sempre assai incerto ed ambiguo, di normale tollerabilità, secondo l'id quod plerumque accidit, la condizione dell'uomo medio, ecc. Si fronteggiano in sostanza due differenti concezioni: la tutela dell'interesse individuale dei coniugi o di un (presunto) interesse superiore della famiglia, e si deve dunque decidere se rilevino la "penosità soggettiva" della convivenza per il coniuge che richiede la separazione, ovvero elementi in vario modo più oggettivi.

Dapprima la tesi "oggettivistica" fu la più seguita in giurisprudenza (tra le altre, Cass. n. 5752 del 1979; Cass. n. 67 del 1986). Si giustificava tale tesi, argomentando dalla giuridicità del vincolo coniugale, dall'esigenza di garantire l'unità della famiglia e il diritto di ciascun coniuge alla prosecuzione della convivenza, a meno che non si verificassero appunto fattori di intollerabilità oggettiva. E nelle concezioni più restrittive per "intollerabilità oggettiva" si intendeva violazione degli obblighi familiari (ma la contraddizione in termini era evidente in quanto di tale violazione avrebbe potuto avvalersi, chiedendo la separazione, l'autore di essa).

Posizioni meno rigorose individuavano comunque l'intollerabilità in fattori gravi, reiterati e protratti nel tempo, tali da deteriorare notevolmente i rapporti tra i coniugi o, ancora, in una serie continua di atti, vista nel suo complesso e continuità. Quale conseguenza di questa concezione, il giudice, ove non ravvisasse elementi di tale "intollerabilità oggettiva", era necessariamente tenuto, allo stato, a respingere la separazione. Sono al contrario rarissimi nella prassi dei giudici di merito i casi di reiezione delle domande (e vanno diminuendo sempre di più). Così la giurisprudenza, specie quella di merito, pur condividendo formalmente le argomentazioni della tesi oggettivistica, ha finito al contrario in concreto - utilizzando assai scarsamente lo strumento della reiezione e individuando sempre nuove ipotesi di intollerabilità - per avvicinarsi alla concezione opposta. E infatti, soprattutto nella giurisprudenza di merito, si è ravvisato tale presupposto nell'incompatibilità di carattere, nel contrasto tra differenti culture, tra diversi "credi" ideologici o religiosi, in manifestazioni di disaffezione, di distacco fisico o psicologico, nell'esasperato spirito di autonomia dei coniugi o magari nella presenza di fatti "oggettivi", indipendenti dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi (ad es. una malattia psichica o fisica di uno di essi), ma considerati, per così dire, soggettivamente.

Si è ritenuto in particolare che sussista intollerabilità della convivenza, quando vi sia accordo delle parti sulla separazione (e vi sarà evidentemente contrasto su alcune clausole di essa) ciò che accade nella prassi per la maggior parte delle separazioni giudiziali, ovvero quando la domanda è presentata poco dopo la nascita di un figlio fuori del matrimonio, ciò che fa ritenere che sia venuta meno ogni comunione di vita.

Ancora si è affermata l'intollerabilità, quando sia venuta meno la volontà di vivere insieme, semplicemente se il ricorrente chieda la separazione e insista nella domanda nonostante il tentativo di conciliazione.

L'orientamento teste indicato è palese manifestazione della tesi "soggettivistica", recepita negli ultimi anni, esplicitamente e senza infingimenti.da questa Corte, che in più occasioni ha precisato non essere necessaria la sussistenza di una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una delle parti, tale da rendere per essa intollerabile la convivenza, pur ammettendosi che l'altro coniuge desideri continuarla (al riguardo, tra le altre, Cass. N. 12383 del 2005 e, successivamente, Cass. N. 3356 e 21099 del 2007; n. 7215 del 2011; 2274 del 2012).

Espressione dell'atteggiamento di disaffezione e distacco unilaterale sopra indicato, può considerarsi dunque la presentazione stessa del ricorso e il successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze (negative) del tentativo di conciliazione: è evidentemente venuto meno quel principio del consenso che, dopo la riforma del 1975, caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale, e il giudice non può che prenderne atto.

Nella specie, l'odierna resistente, come precisa il Giudice a quo, ha dichiarato espressamente di non sopportare più il marito e di volersi separare da lui, e tale atteggiamento essa ha continuato a mantenere durante lo svolgimento del processo.

Va pertanto rigettato, per quanto si è detto, il primo motivo di ricorso che ha sicuramente carattere assorbente rispetto al secondo.

Va conclusivamente rigettato il ricorso.

Con un unico motivo del ricorso incidentale, la M. lamenta violazione dell'art. 156 c.c., nonchè vizio di motivazione sulla quantificazione dell'assegno di mantenimento.

Va precisato che, anche in sede di separazione, i l'assegno deve tendere a ricostituire il tenore di vita goduto dal coniuge durante la convivenza matrimoniale, e tuttavia indice di esso può essere l'attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi (Cass. N. 2156 del 2010).

In sostanza la ricorrente propone profili e situazioni di fatto, insuscettibili di controllo in questa sede, a fronte di una sentenza caratterizzata da motivazione adeguata e non illogica.

Il giudice a quo, con motivazione adeguata, esamina la situazione economica delle parti: il T. è un ex avvocato che percepisce reddito da pensione per Euro 28.895 lordi; la M., per Euro 4.200,00 (mensili), reddito "assimilato a quello del lavoro dipendente" (ed essa ha alienato un immobile di cui era proprietaria al 50% per il prezzo di Euro 65.000,00): si tratta, peraltro, all'evidenza, di errore materiale, dovendo intendersi il reddito di Euro 4.200,00, annuale e non mensile (non avrebbe alcun senso altrimenti l'argomentazione della sentenza impugnata, da cui emerge, ancorchè implicitamente una disparità economica a danno della moglie). La ricorrente incidentale afferma che la predetta somma non è altro che l'importo dell'assegno corrispostole dal coniuge, ma di tale assunto essa non fornisce prova alcuna.

Quanto all'alienazione di immobile, la M. sostiene (ma anche in tal caso senza fornire prova) che la parte di sua spettanza era di Euro 46.000,00; richiama altresì spese effettuate per ragioni familiari (manutenzione della casa di abitazione e,dopo la separazione, esborsi a favore del figlio F., all'epoca non autosufficiente economicamente). Essa indica i documenti relativi, come prodotti nel fascicolo di parte, ma senza peraltro riportarne il contenuto, e senza specificamente allegarli al controricorso e ricorso incidentale, ai sensi dell'art. 369 c.p.c.. Sul punto, pertanto, il ricorso presenta profili di non autosufficienza.

Alla luce di quanto osservato, pur correggendosi la lettera della motivazione, della sentenza nel senso sopraindicato (somma di Euro 4.200,00 percepita dalla M., annuale e non mensile) appare adeguata la valutazione della Corte di merito circa la conferma dell'importo dell'assegno divorzile, stabilito in primo grado.

Va pertanto rigettato anche il ricorso incidentale.

Il tenore della decisione richiede la compensazione delle spese tra le parti.

PQM
P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi, dichiara compensate le spese del presente giudizio tra le parti.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere generalità ed atti identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2014  

autore: Campione Francesco