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Accertamento dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno di divorzio. Profili istruttori (Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2013, n. 14336).

Domenica, 24 Novembre 2013
Giurisprudenza | Separazione e divorzio | Legittimità
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In tema di divorzio, il giudice del merito, ove ritenga "aliunde" raggiunta la prova dell'insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell'assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d'ufficio attraverso la polizia tributaria, atteso che l'esercizio del potere officioso di disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella sua discrezionalità, non trattandosi di un adempimento imposto dall'istanza di parte, purché esso sia correlabile anche per implicito ad una valutazione di superfluità dell'iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti.


Cass. 14336/2013


Svolgimento del processo - Motivi della decisione


Nella sentenza impugnata, con la quale è stata riformata la pronuncia di primo grado emessa dal Tribunale di Milano, la Corte d'Appello, nel giudizio di cessazione degli effetti civili tra V. C. e F.T., ha negato il riconoscimento dell'assegno divorzile in favore della F. e ha condannato tale parte al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi.


A sostegno della decisione assunta, è stato affermato, per quel che ancora interessa:


- non era necessario disporre le indagini patrimoniali richieste sia dall'appellante principale V. che dall'appellante incidentale F., non avendo rilievo il rigoroso accertamento delle rispettive situazioni economico-patrimoniali ai fini della decisione;


- le parti, contratto matrimonio nel 1969. avevano condotto una vita agiata, fondata sul reddito da lavoro autonomo del V.. Nel 1980 era stato acquistato l'immobile adibito a casa coniugale cointestato ad entrambi i coniugi. Nel 1984 le parti si erano separate di fatto.


Nel 1994 era intervenuta la separazione consensuale e nel 2004 era stato instaurato il giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Nel periodo della separazione il V. aveva fornito alla moglie i mezzi per vivere e ne aveva finanziato l'avvio di un'attività lavorativa autonoma, consistente nell'apertura di un negozio di gioielleria tuttora attivo. In sede di separazione consensuale le parti avevano definito concordemente ogni aspetto patrimoniale ed in particolare il V. aveva acquistato la metà dell'abitazione coniugale intestata alla moglie, la quale aveva dichiarato di non avere alcuna pretesa economica da avanzare anche per il futuro a titolo di contributo per il proprio mantenimento.


Fino all'introduzione del giudizio di divorzio l'accordo separativo era stato rispettato anche perchè la F. aveva continuato a svolgere l'attività commerciale avviata;


- la condizione economico patrimoniale della F. successivamente all'instaurazione del giudizio di divorzio non era mutata in quanto la stessa era rimasta titolare di due immobili uno dei quali adibito a gioielleria, aveva trasformato la ditta individuale in impresa familiare con il fratello; aveva dichiarato redditi palesemente non corrispondenti a quelli reali, come riconosciuto anche dal giudice di primo grado in quanto del tutto incompatibili con l'autosufficienza economica goduta per oltre venti anni e con l'esistenza e con il lungo periodo di rispetto dell'accordo patrimoniale assunto in sede di separazione, circostanze alle quali doveva riconoscersi un valore indiziante significativo;


- doveva conseguentemente escludersi che la F. si trovasse nella condizione d'inadeguatezza di mezzi che costituisce la condizione per l'attribuzione dell'assegno divorzile, tenuto, altresì, conto della peggiorata condizione economico-patrimoniale del V., il quale aveva ceduta la propria impresa cartografica nel 2002, ed aveva ripianato le pregresse perdite di esercizio con il prezzo rateale della cessione; si era stabilizzato, infine, su un reddito dichiarato di circa 30000 Euro annui, tenuto conto che per i capannoni di proprietà della società di cui era titolare il V. erano pervenute disdette dai conduttori nel 2007 e che, attualmente era proprietario oltre che dei predetti capannoni soltanto dell'immobile in cui risiedeva; non era, pertanto, necessario disporre le indagini patrimoniali richieste sia dall'appellante principale V. che dall'appellante incidentale F., non avendo rilievo, alla luce del complesso degli elementi di fatto accertati, il rigoroso accertamento delle rispettive situazioni economico-patrimoniali ai fini della decisione;


- in conclusione le condizioni economico patrimoniali degli ex coniugi non presentavano disparità essendo, come già osservato, peggiorate quelle del V. e rimaste stabili quelle della F. dall'avvio della attività commerciale in poi.


Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, F.T.. Ha resistito V.C. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..


Nel primo motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell'art. 115 c.p.c., e art. 2729 c.c., in relazione alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 8, per avere la sentenza impugnata ritenuto sostanzialmente paritarie le condizioni economiche delle parti sulla base di mere presunzioni reputando non veritiere le dichiarazioni fiscali della F. e disattendendo le istanze istruttorie peraltro proposte da entrambe le parti su tale specifico profilo. Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto: "Stabilisca la Corte se dovendosi accertare in ambito giudiziale la condizione reddituale e patrimoniale delle parti in funzione dell'attribuzione dell'assegno divorzile ex art. 4 comma quinto e nono della L. n. 898 del 1970, ed essendovi contestazione circa tale reciproca condizione reddituale e patrimoniale, contestazione espressa dalle parti anche con richiesta di incombenti istruttori a supporto delle rispettive tesi, e avendo il giudicante ritenuti inattendibili i documenti di reddito acquisiti agli atti, sia possibile senza incorrere in violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1910, art. 3, comma 6 e 9, art. 115 c.p.c., e art. 2129 c.c., definire il giudizio su basi indiziarie rigettando le istanze istruttorie? Il motivo è infondato. Come da consolidato orientamento della giurisprudenza di questa sezione, il giudice del merito ove ritenga "aliunde" raggiunta la prova dell'insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell'assegno di divorzio, può procedere al rigetto dell'istanza senza disporre preventivamente accertamenti officiosi attraverso la polizia tributaria, atteso che l'esercizio di tale potere rientra nella discrezionalità del giudice, non trattandosi di un adempimento imposto dall'istanza di parte (Cass. 9861 del 2006), purchè sia correlabile anche per implicito ad una valutazione di superfluità dell'iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (Cass. 16575 del 2008).


Nella specie, peraltro, la Corte d'Appello ha fornito ampia e specifica motivazione in ordine alla superfluità dell'indagine anche con riferimento alla scarsa verosimiglianza delle dichiarazioni fiscali della ricorrente, fondando su numerosi e univoci elementi di fatto tale complessiva valutazione.


Nel secondo motivo viene dedotta la medesima censura sotto il profilo del vizio di motivazione. In particolare viene evidenziato che sono stati valorizzati in modo sproporzionato i beni immobile della ricorrente rispetto a quelli del resistente, nonchè non considerate le potenzialità economico patrimoniali derivanti dalle plusvalenze prodotte dalla vendita dell'azienda e dalla proprietà di capannoni industriali.


Il motivo è manifestamente inammissibile perchè manca della sintesi finale richiesta dall'art. 366 bis c.p.c., ratione temporis applicabile (S.U. 20603 del 2007; S.U. 2652 del 2008) ed, inoltre, perchè richiede a questa Corte una non consentita rivalutazione e comparazione dei fatti alternativa a quella eseguita dalla Corte d'Appello, con adeguata ed esauriente motivazione su tutti gli elementi ritenuti meritevoli di esame. (Cass. 9233 del 2006; 2272 del 2007). Il ricorso, in conclusione deve, essere respinto.


Le spese del giudizio di cassazione, come liquidate nel dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.


La Corte, rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente procedimento liquidate in favore della parte contro ricorrente in Euro 2.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.


Omettere le generalità in caso di diffusione.


Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 marzo 2013.


Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2013

autore: Campione Francesco