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La percentuale di TFR va commisurata alla durata legale del matrimonio. - Cass., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10075

- Diritto dell'ex coniuge -
Come questa Suprema Corte ha affermato nella recente pronuncia n. 12995 del 2001, richiamando la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 1991 - la quale ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità della norma in esame nella parte in cui attribuisce al divorziato una percentuale fissa dell'indennità di fine rapporto percepita dall'ex coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, rapportandola alla durata del matrimonio e non a quella della convivenza - nella concreta disciplina delle misure in favore del coniuge più debole previste dalla legge in conseguenza e per il fatto del divorzio la durata del matrimonio costituisce parametro di rilievo centrale e corrisponde ad un criterio generale inteso non solo ad assicurare la certezza dei rapporti, ma anche, e soprattutto, a valorizzare la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio. La medesima Corte della legittimità delle leggi ha posto in luce la piena ragionevolezza dell'intendimento del legislatore, una volta effettuata la scelta di attribuire la quota dell'indennità in una percentuale predeterminata, di valorizzare il contributo che il coniuge più debole normalmente continua a fornire durante il periodo di separazione, soprattutto nel caso in cui sia affidatario di figli minori, ed al tempo stesso di ancorare il periodo di riferimento ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza. Tale orientamento, che va in questa sede ribadito, appare del tutto coerente con la natura e la funzione dell'istituto in discorso, che è connotato sia da profili di natura assistenzialistica, in quanto presuppone la spettanza dell'assegno divorzile, sia, e soprattutto, da aspetti di carattere compensativo, in relazione al contributo personale ed economico apportato dall'ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune (v. ancora sul punto Corte Cost. n. 23 del 1991). In questa prospettiva il legislatore del 1987 ha inteso aver riguardo, come si desume chiaramente dai lavori preparatori, all'apporto fornito dal coniuge più debole per tutta la durata del matrimonio alla maturazione di detta indennità, sulla base di una valutazione astratta, ma ancorata a dati di comune esperienza, pur subordinando l'acquisizione del diritto alla quota di essa alla percezione dell'assegno, quale indice della mancanza di redditi adeguati (v. in tal senso Cass. 1996 n. 2273, in motivazione).

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